"In Europa ci sono già i presupposti per l'esplosione di un conflitto sociale. Questo è il seme del malcontento, dell'egoismo e della disperazione che la classe politica e la classe dirigente hanno sparso. Questo è terreno fertile per la xenofobia, la violenza, il terrorismo interno, il successo del populismo e dell'estremismo politico."

venerdì 27 febbraio 2015

L'abdicazione della politica e l'estinzione della Democrazia: un tassello.


IL DIBATTITO E LE IDEE

L'apatia della democrazia
·       –di Barbara Spinellii

·       IlSole24Ore, 27 febbraio 2015
Nel 1998 il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer descrisse i due «plebisciti» su cui poggiano le democrazie: quello delle urne, e il «plebiscito permanente dei mercati». La coincidenza con l'adozione di lì a poco dell'euro è significativa.



La moneta unica nasce alla fine degli anni '90 senza Stato: per i mercati il suo conclamato vizio d'origine si trasforma in virtù. Le parole di Tietmeyer e i modi di funzionamento dell'euro segnano l'avvio ufficiale del processo che viene chiamato decostituzionalizzazione – o deparlamentarizzazione – delle democrazie.
Il fenomeno si è acutizzato con la crisi cominciata nel 2007, ma già nel 1975 un rapporto scritto per la Commissione Trilaterale denunciava gli «eccessi» delle democrazie parlamentari postbelliche e affermava il primato della stabilità e della governabilità sulla rappresentatività e il pluralismo, giungendo sino a esaltare l'apatia degli elettori: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene».
Oggi viviamo all'ombra di quel plebiscito dei mercati mondiali, che non conosce scadenze o prove di falsificazione. Un po' come la guerra permanente al terrorismo. Ambedue producono un continuo stato di eccezione, dove gli equilibri delle democrazie costituzionali saltano per ricomporsi in maniera accentrata. Dominano gli esperti monetari, le élite finanziarie internazionali, i grandi istituti di credito, i complessi militari-industriali, e pochi Stati a torto considerati onnipotenti. L'efficienza e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti.
Gli effetti di questa decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli (redatto forse non a caso in concomitanza con il rapporto della Trilaterale) è stato fatto proprio da Craxi, poi da Berlusconi, infine da Matteo Renzi. Conta più che mai la governabilità, a scapito della rappresentatività e degli organi intermedi che aiutano la società a non cadere nell'apatia e nell'impotenza. È rivelatore anche l'uso di certe terminologie. Le riforme strutturali o di “efficientamento”, si tratta non di deliberarle attraverso discussioni democratiche, ma di “portarle a casa”. Portare a casa le riforme rimanda all'immagine di una caccia predatoria. Si parte verso territori infestati da nemici che possono intralciare la scorreria (contropoteri, organi intermedi, sindacati, spazi pubblici) per mettere in salvo il bottino nel fortilizio chiuso, e soprattutto privato, che è la “casa”. (Notiamo en passant che economia nei primordi è proprio questo: la legge, nòmos, della casa, oîkos. Saranno la politica e poi la democrazia a oltrepassare il perimetro casalingo.)
Sotto il plebiscito permanente dei mercati globali, la politica di per sé non scompare; si adatta, mutando natura. Ma scompare l'essenza della democrazia costituzionale, e cioè l'obbligo di separare le decisioni, nella consapevolezza che qualsiasi potere, se non controbilanciato da poteri altrettanto forti e autonomi, tende a divenire assoluto.
Il prosciugamento della democrazia colpisce anche le istituzioni europee, indebolendo radicalmente la funzione dell'Unione, che dovrebbe servire da filtro fra politica e mercati, fra Stati sempre meno padroni di sé e finanza globale sempre più sregolata e invadente. L'approdo temuto da Habermas è il «federalismo degli esecutivi»: una rivoluzione dall'alto, compiuta su ambedue i piani, nazionale ed europeo. Il dato tecnico-contabile prevale su ogni altra considerazione, svuotando anche nell'Unione organi di controllo quali il Parlamento europeo o la Corte di giustizia. 
Da pochi mesi sono deputato europeo, e constato come quotidianamente vengano disattese promesse, violati articoli del Trattato di Lisbona e soprattutto della Carta dei diritti fondamentali, che pure dovrebbe essere vincolante per i ventotto Stati membri. Ricordo la sostituzione di Mare Nostrum con la missione europea Triton: in pratica si è deciso di rinunciare alle operazioni di ricerca e soccorso in mare dei migranti, contravvenendo a precisi regolamenti del Consiglio e del Parlamento europeo emanati nel 2014, alla Carta dei diritti e perfino al diritto del mare.
Ma oltre a Triton, molti altri articoli della Carta sono violati: sempre parlando di migranti, la proibizione delle espulsioni collettive e in particolare del rimpatrio laddove esista un rischio serio di subire la pena di morte o la tortura (art. 19); il diritto di asilo ai rifugiati sulla base della convenzione di Ginevra del 1951 (art. 18); il diritto alla vita (art. 2). Quanto alla politica economica e sociale, sono calpestati i diritti europei che tutelano le azioni collettive in difesa dei propri interessi (compreso lo sciopero), la tutela in caso di licenziamento ingiustificato, il diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose (articoli 28, 30, 31), oltre al diritto dei giovani ammessi al lavoro di beneficiare di «condizioni lavorative appropriate alla loro età» e di essere «protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, mentale, morale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione» (art. 32). 
Lo stesso trattato di Lisbona è aggirato. Non è rispettato l'art. 2 che esige il rispetto delle minoranze (si pensi ai Rom). È tolta la garanzia contenuta nel preambolo di «attuare politiche volte a garantire che i progressi compiuti sulla via dell'integrazione economica si accompagnino a paralleli progressi in altri settori». Evapora anche l'impegno, ribadito nell'art. 3, a fare in modo che la competitività «miri alla piena occupazione e al progresso sociale» e si basi «su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente».
Questi e altri diritti sono sospesi, accampando come pretesto la crisi economica e le sue emergenze. È in questo quadro che il magistrato Giuseppe Bronzini parla di diritto emergenziale dell'Unione europea, divenuto cogente a seguito dell'introduzione di una serie di norme e accordi inter-statali stipulati sulla scia del dissesto economico del 2007-2008: un reticolato di leggi e normative che non si incardinano né nel diritto nazionale né in quello europeo, e che vengono così sottratte al controllo sia dei Parlamenti nazionali sia del Parlamento europeo. Sono state adottate dal direttorio degli esecutivi, gestite in comune da Commissione, Banca Centrale e l'organo estraneo all'Unione che è il Fondo monetario, e danno corpo, dentro l'Unione, a una zona di non-diritto. La Grecia è stata la vittima e lo spettacolare laboratorio della creazione deliberata di un limbo giuridico dentro l'Europa, tale da decostituzionalizzare al tempo stesso l'Unione che impone l'austerità e lo Stato membro che riceve l'ordine di applicarla. Lo ha ammesso il commissario Jyrki Katainen il 17 settembre 2014 in risposta a una domanda in merito agli effetti del programma di austerità sui diritti fondamentali garantiti dalla Carta: «I documenti del programma non sono legge europea, ma strumenti concordati tra la Grecia e i suoi creditori: pertanto la Carta non può essere usata come riferimento, e spetta alla Grecia assicurare che i propri obblighi sui diritti fondamentali siano rispettati».

lunedì 23 febbraio 2015

L'esautorazione silente delle Corti Costituzionali e delle Costituzioni nazionali

IL RUOLO DEI PARLAMENTI NAZIONALI NELL’UNIONE EUROPEA
di Dieter Grimm

SOMMARIO: 1 Tendenze generali di deparlamentarizzazione. — 2 La situazione in Europa. — 2.1. Il trasferimento di sovranità dagli Stati membri all’UE — 2.2. L’esercizio di competenze trasferite da parte dell‘UE. — 2.3. L’attuazione del diritto dell’Unione a livello nazionale. — 2.4. Compensazioni per la perdita di importanza dei parlamenti nazionali. — 3. Parlamentarizzazione della UE come compensazione?

1.Tendenze generali di deparlamentarizzazione.

Il processo di integrazione europea conduce ad un ridimensionamento dei parlamenti nazionali, e in questo modo del potere legislativo. Tale ridimensionamento avvantaggia non tanto il Parlamento Europeo, ma assai più i governi nazionali e il potere esecutivo, mentre l’incremento di competenze che il Parlamento Europeo ha invocato e ricevuto non è sufficiente a compensare questa perdita di importanza.
Anche a livello europeo il Parlamento resta debole, persino in confronto ai parlamenti nazionali. Una migliore attribuzione di competenze potrebbe anche essere immaginabile, ma non eliminerebbe il deficit di legittimazione dell’UE.
In sintesi, è questa la tesi del presente contributo. Prima di entrare nel dettaglio, vorrei però precisare che la perdita di rilevanza non rappresenta una caratteristica specifica dei parlamenti.
Quello che si ravvisa è soprattutto una generale tendenza alla deparlamentarizzazione: una tendenza che ha ragioni strutturali, che frustrano le speranze di un suo contenimento o di una sua eliminazione. Le ragioni strutturali derivano dalle mutate condizioni della politica statale, affetta da cambiamenti di due tipi: all’interno degli Stati essi sono causati dal passaggio dallo Stato liberale, che tutelava l’ordine precostituito, allo Stato sociale, finalizzato alla creazione di un assetto ordinato.
Sul piano esterno, i cambiamenti si devono alla trasformazione degli Stati nazionali autonomi in Stati membri di organizzazioni internazionali, ed al trasferimento di sovranità dai primi a queste ultime. Dal momento che l’Unione Europea rappresenta un’organizzazione internazionale particolarmente integrata, l’erosione della funzione parlamentare si verifica in misura più forte che in altri contesti.
A livello internazionale, il processo decisionale di tipo deliberativo viene gradualmente sostituito da un procedimento di carattere negoziale. Sono soprattutto i governi a negoziare, mentre i parlamenti entrano in gioco solo per ratificare i risultati delle trattative.
Il potere di influenza consentito dalla ratifica non è lo stesso che permette l’esercizio della potestà legislativa. Nel procedimento legislativo il Parlamento decide il contenuto della decisione, anche quando il progetto di legge proviene dal Governo, e questa non è solo una possibilità teorica, ma una realtà pratica.
Raramente un disegno di legge di provenienza governativa diventa legge senza subire modifiche. Nella ratifica, invece, il contenuto della decisione è già stabilito. Il Parlamento può solo prendere o lasciare. Il rifiuto rappresenterebbe però un disconoscimento del Governo, che è sostenuto dalla maggioranza del Parlamento.
Per questo, i costi politici di un “NO” risultano abitualmente troppo alti. I trattati europei hanno fallito solo laddove era previsto un referendum. Lo spostamento dell’accento dalla deliberazione alla negoziazione non è determinato però soltanto da fattori esterni, in quanto esistono anche ragioni interne che lo determinano.
Il motivo risiede nella modifica della statualità, che ha preso l’avvio già nel tardo XIX secolo e, malgrado alcune correzioni minime, non ha subito finora cambiamenti. Lo Stato non è più solo il garante di un ordine sociale preesistente e del quale si presuppone l’equità, ma sviluppa e modifica continuamente questo ordine, per adeguarsi a sfide mutevoli e a esigenze di giustizia. Esso porta oggi l’intera responsabilità per l’esistenza e il benessere della società.
L’importanza maggiore è quella relativa al sostegno della crescita economica, alla tutela dell’ambiente e alla prevenzione di ogni tipologia di rischio. Molti di questi compiti non si possono più adempiere con l’ordine e l’obbligo, i tipici strumenti a disposizione dello Stato. In parte questo non è possibile, in parte non è consentito giuridicamente, in parte non è opportuno.
Lo Stato è chiamato ad attuare i propri doveri di cooperazione con i soggetti privati, spesso quegli stessi soggetti che determinano i problemi che poi esigono un intervento dello Stato. I soggetti privati guadagnano così una posizione di veto che favorisce il passaggio ad una posizione negoziale.
Se l’attuazione dei risultati del negoziato richiede una legge, non ci sono modi per aggirare il Parlamento.
Ma questo si trova allora in una situazione simile a quella prevista dalla ratifica di trattati internazionali: non può determinare in alcun modo il contenuto della legge, ma solo confermarlo o respingerlo.
Se le trattative avvengono in una modalità per la quale lo Stato rinuncia alla disciplina legislativa, mentre i soggetto privati che hanno causato il problema promettono una buona condotta, il Parlamento non entra nemmeno in gioco.
Ora lascio da parte queste considerazioni generali sulla condizione generale del parlamentarismo e faccio riferimento alla speciale questione del ruolo dei parlamenti nazionali nell’UE.

2. La situazione in Europa
Nel descrivere la situazione europea si devono distinguere tre stadi: - Il trasferimento di sovranità dagli Stati membri all’UE. - l’esercizio della sovranità trasferita da parte dell’UE. - L’attuazione delle decisioni europee da parte degli Stati membri. In ognuno di questi stadi i parlamenti nazionali svolgono delle funzioni diverse.

2.1. La situazione in Europa
Il trasferimento dei diritti di sovranità nazionale avviene attraverso la stipulazione di trattati tra gli Stati membri. Il contenuto dei trattati costituisce il diritto europeo primario.
Di norma vengono trasferiti diritti di sovranità che all’interno dello Stato spettano al Parlamento, in particolare competenze legislative, ma con la creazione dell’unione monetaria anche competenze finanziarie e di bilancio, ovvero poteri chiave dell’organo parlamentare.
Altre competenze come la formazione del Governo e i controlli sull’Esecutivo non sono invece interessati dal trasferimento di competenze.
Il trasferimento esige l’unanimità di tutti gli Stati membri, e viene ottenuto nel corso di trattative dei Capi di Stato e di Governo, l’Esecutivo ne decide il contenuto.
L’esito delle trattative, però, acquista una valenza giuridica solo attraverso la ratifica in tutti gli Stati membri, conformemente alle norme vigenti in materia nelle rispettive costituzioni nazionali.
In alcuni Stati membri è inoltre previsto un referendum, in alcuni una modifica costituzionale, nella maggior parte di loro una legge di approvazione da parte del Parlamento.
Il questo frangente il Parlamento si trova di nuovo di fronte ad una scelta tra un Si e un No.
Il contenuto dei trattati internazionali degli Stati membri non può essere modificato all’interno dell’iter parlamentare; tuttavia, al Parlamento spetta un ruolo decisivo: esso funge da filtro per la cessione di diritti di sovranità.
Alcune costituzioni nazionali pongono condizioni per il trasferimento di sovranità. La Legge Fondamentale (LF) tedesca è particolarmente dettagliata a riguardo.
Secondo l’art. 23 I LF, i diritti di sovranità possono essere trasferiti solo se la UE risulta obbligata al rispetto dei principi democratici, giurisdizionali, sociali, federali e del principio di sussidiarietà, e venga assicurato un livello di protezione dei diritti fondamentali equiparabile a quello previsto dalla Legge Fondamentale.
Dal momento che questo trasferimento modifica la Legge Fondamentale senza determinare cambiamenti testuali, alla ratifica di trattati europei si applicano le stesse regole vigenti per le revisioni costituzionali.
Queste richiedono una maggioranza di due terzi in Parlamento e non possono violare l’art. 79 III della LF. La conseguenza, chiaramente, è che non tutto ciò che è compreso nella Legge Fondamentale è corretto. Se ci si vuole informare sulla disciplina costituzionale attualmente vigente in uno Stato membro della UE non ci può affidare esclusivamente al testo costituzionale nazionale, ma è necessario ricorrere anche ai trattati europei.
Così, per es., l’art. 73 LF attribuisce alla Federazione l’esclusiva potestà legislativa sulla moneta, i cambi valutari, l’emissione di moneta e le dogane. In realtà, tutte queste materie sono state trasferite all’EU. Altre competenze legislative della Federazione sussistono ancora solo in parte, come la competenza legislativa esclusiva in materia di immigrazione, dal momento che all’interno della UE vige la libertà di circolazione.
Alle condizioni previste dall’art. 23 I LF relative al trasferimento dei diritti di sovranità, il Tribunale Costituzionale federale ne ha aggiunte altre deducibili da altre disposizioni della Legge Fondamentale.
Per quanto interessa in questa sede, l’aspetto più rilevante riguarda il fatto che il trasferimento di diritti di sovranità all’Unione Europea non può condurre ad uno svuotamento delle funzioni del Bundestag.
Questo limite al trasferimento di sovranità si deduce dall’art. 38 I LF. Il Tribunale Costituzionale federale interpreta il diritto elettorale non in senso formale, ma materiale, e non attribuisce soltanto ai cittadini il diritto di partecipare alle elezioni per il Bundestag: una volta eletto, il Bundestag deve poi disporre di una sufficiente capacità decisionale per trasformare la volontà popolare in provvedimenti politici e dare effettività all’interno del processo politico alle preferenze degli elettori espresse attraverso le consultazioni elettorali.
Rispetto alle condizioni per il trasferimento di competenze, il Tribunale Costituzionale federale distingue tra sovranità e diritti di sovranità. La Legge Fondamentale consente all’art. 23 I solo il trasferimento di diritti di sovranità, non il trasferimento della sovranità. Persino attraverso una revisione costituzionale questo limite non potrebbe essere superato, in quanto secondo il Tribunale di Karlsruhe la sovranità della Repubblica Federale è protetta ai sensi dell’art 79 III LF anche rispetto alle revisioni costituzionali. Pertanto, la Repubblica Federale tedesca non potrebbe prendere parte ad una trasformazione dell’UE in Stato federale mantenendo vigente la Legge Fondamentale. Secondo il Tribunale Costituzionale federale, il Bundestag è responsabile anche per la deliberazione del processo di integrazione degli Stati membri.
Delle deleghe in bianco sono pertanto assolutamente escluse. Ma anche nell’ambito delle singole deleghe il Parlamento può approvare dei provvedimenti di integrazione che abbiano una portata prevedibile. Ciò produce delle conseguenze sulle trattative del Governo federale nella Conferenza dei Capi di Stato e di Governo: l’Esecutivo della RFT può accettare solo dei risultati che il Bundestag sia in grado di ratificare. Pertanto, il Governo deve tenere conto di questo aspetto già in sede negoziale, se vuole evitare un fallimento più tardi in Parlamento o, in ultima analisi, davanti al Tribunale Costituzionale federale.
L’effettiva entità dello spostamento di potere si può tuttavia comprendere solamente considerando non soltanto i formali trasferimenti di competenze, ma anche l’insidiosa erosione delle potestà dei parlamenti negli Stati membri dell’Unione.
La fonte di questa erosione non è rappresentata dalle modifiche dei trattati, ma dalle interpretazioni dei trattati da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (una volta CGCE, oggi CGUE), la quale pone alla base della propria interpretazione dei trattati il principio metodologico del cd. effet utile.
Secondo questo principio, i trattati vanno interpretati in modo che l’UE possa esercitare senza limitazioni le proprie competenze, cosa che al tempo stesso significa che le competenze nazionali devono essere contestualmente il più possibile limitate.
La Corte di Giustizia ha perseguito questo obiettivo con lena missionaria, nel momento in cui ha dichiarato in larga parte inapplicabili delle norme approvate dai parlamenti nazionali attraverso un’interpretazione estensiva del diritto comunitario.
Ma anche il Consiglio ha preso parte alla sostituzione del diritto parlamentare nazionale con il diritto governativo europeo, approfittando in questo modo del fatto che nella UE le competenze legislative vengono ripartite non secondo un criterio materiale, ma in base ad un criterio di carattere finanziario. Laddove appaia necessario creare o conservare il Mercato Comune, la potestà legislativa spetta all’Unione. Così, l’UE può intervenire anche in materie per le quali gli Stati membri non hanno trasferito nessun tipo di competenze legislative.
A trarne vantaggio sono le quattro libertà economiche fondamentali, che in questo modo, diversamente che negli Stati membri, si ergono a criterio dominante.
La Carta Europea dei diritti, nell’interpretazione che ne dà la Corte di Giustizia, si dimostra un ulteriore strumento per il restringimento delle competenze nazionali. Secondo l’art. 51, la Carta vincola sia le istituzioni europee che gli Stati membri, ma solo quando questi ultimi danno attuazione al diritto dell’Unione.
Un ampliamento delle competenze attraverso la Carta dei Diritti è esplicitamente vietata; inoltre, nell’art. 53 è escluso che l’ambito di applicazione della Carta possa determinare una riduzione della protezione dei diritti fondamentali a livello nazionale. La Corte EDU interpreta l’art. 51 nel senso che nell’applicazione del diritto dell’Unione rientri anche quella del diritto nazionale, a condizione che questo si ponga in correlazione con il diritto dell’Unione: cosa che accade ormai quasi sempre, considerato il livello di interrelazione raggiunto tra diritto dell’Unione e diritto nazionale. L’art. 51 perde così i suoi tratti caratteristici.
Sebbene, in base all’art. 51 II, la Carta dei Diritti non possa giustificare la titolarità di alcuna competenza al di fuori di quelle espressamente trasferite, attraverso l’interpretazione della Corte di Giustizia le competenze legislative nazionali risultano tuttavia poste in secondo piano.
La protezione dei dati personali rappresenta un buon esempio in questo senso. Essa non è una materia a se stante, ma trasversale, rispetto alla quale va rispettato ogni intervento normativo del singolo Stato membro.
Dal momento che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, i diritti fondamentali nazionali vanno compressi in tutti quei casi in cui il diritto nazionale entra in qualche modo in contatto con il diritto dell’Unione, così facendo i giudici di Strasburgo si procurano un accesso ad una serie di materie legislative che gli Stati membri non hanno trasferito all’Unione.
Lo stesso dicasi per la garanzia che esige che un livello superiore di protezione dei diritti fondamentali nazionali non può risultare subordinato attraverso l’interpretazione della Carta dei Diritti.
La Corte di Giustizia riconosce questo principio solo nel caso in cui la legislazione nazionale non si traduca in un ridimensionamento delle libertà fondamentali economiche che, in questo modo, si trasformano in libertà superiori.
In realtà, l’art. 53 viene effettivamente minacciato quando vengono posti in discussione dei rapporti giuridici non bi- ma tripolari, perché in questi casi l’aumento di protezione di un diritto fondamentale si traduce inevitabilmente nella compressione di un altro diritto. Contro l’erosione delle loro competenze i parlamenti nazionali sono impotenti.
Poiché i trattati vengono elevati a rango di norme costituzionali attraverso la giurisprudenza della Corte di Giustizia, e di conseguenza ambiscono ad una preminenza sia rispetto al diritto comunitario secondario che soprattutto al diritto nazionale, l’interpretazione e l’applicazione dei trattati si trasforma quasi in un’attuazione della Costituzione.
Le istituzioni politiche dell’Unione, il Consiglio e il Parlamento Europeo non hanno di fatto alcuna possibilità di intervenire in modo correttivo. Il Tribunale Costituzionale federale esprime pertanto una corretta valutazione della situazione nel momento in cui stabilisce che l’unico contrappeso all’espansiva tendenza giurisprudenziale della Corte di Giustizia sia rappresentato dalle corti costituzionali.
La loro funzione consiste anche nel proteggere i parlamenti degli Stati e in questo modo la democrazia nazionale da un ulteriore deperimento. 2.2. L’esercizio di competenze trasferite da parte dell‘UE Una volta che delle competenze nazionali sono trasferite, il loro esercizio si svolge non più in base alle costituzioni nazionali, ma secondo il diritto europeo.
Mentre il diritto primario europeo viene stabilito dagli Stati membri, la deliberazione del diritto secondario è competenza esclusiva dell’UE. La legislazione europea viene posta in essere in collaborazione tra Commissione, che detiene il diritto di iniziativa, Consiglio dei Ministri, che determina il contenuto delle norme legislative, e Parlamento Europeo, a cui spettano graduali competenze di codecisione.
Il soggetto principale è il Consiglio, nel quale sono rappresentati i governi degli Stati membri. L’unico modo per i parlamenti nazionali per esercitare un’influenza sui contenuti del diritto secondario dell’Unione è dunque attraverso gli esecutivi nazionali.
Per questo esistono una serie di possibilità, che vanno dalle abituali forme di controllo sull’operato dell’Esecutivo, fino all’emanazione di un mandato vincolante per i governi, come nel caso di Gran Bretagna, Danimarca e Austria. In Germania l’art. 23 II LF disciplina la partecipazione del Parlamento in materia di integrazione europea. Nel dettaglio, la norma impone al Governo federale dei doveri di informazione; il Parlamento ha la possibilità di esprimere delle posizioni rispetto ad atti legislativi europei, di cui il Governo federale deve necessariamente tenere conto nei negoziati condotti nel Consiglio.
Fin quando la legislazione europea concerne materie che a livello statuale sarebbero di competenza dei Länder, la posizione del Bundesrat va “autenticamente” rispettata. “Rispettare” non significa “seguire”, ma richiede delle motivazioni profonde in caso di mancato rispetto di dette posizioni.
Il fatto che in Germania non esista un mandato imperativo appare appropriato, considerando la particolarità della legislazione europea, che per sua natura non è una questione di deliberazione tra orientamenti politici differenti, ma di negoziazione tra distinti interessi nazionali.
Il successo di un Governo nella formulazione di progetti di legge dipende dal suo margine di trattativa. Chi non può reagire in modo flessibile, o deve farsi rassicurare dal proprio Parlamento prima di ogni passo, può diventare rapidamente incapace di stringere compromessi e quindi ridursi solamente a minacciare veti. Una minaccia del genere, tuttavia, resta priva di conseguenze fin quando per le decisioni del Consiglio si segue il principio della maggioranza. In generale si può dire che l’influenza di un Governo incapace di flessibilità sul contenuto di una legge diminuisce. Le discipline interne degli Stati trovano un sostegno a livello europeo. L’art. 12 del Trattato dell’Unione Europea (TUE) dice che i parlamenti nazionali contribuiscono “attivamente al buon funzionamento dell’Unione”.
Per questo scopo, essi devono venire ampiamente informati. I protocolli sul ruolo dei parlamenti nazionali nella UE (Protocollo nr. 1) e sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità (Protocollo nr. 2) attribuiscono ai parlamenti nazionali in temi connessi al principio di sussidiarietà un diritto all’emanazione di pareri che vanno poi tenuti in considerazione dalle istituzioni europee.
Al fine di rendere più effettivo il principio di sussidiarietà, in base all’art. 5 TUE e all’art 8 del Protocollo nr. 2, i parlamenti nazionali sono inoltre autorizzati ad avviare un ricorso per violazione dei trattati davanti alla Corte Europea di Giustizia. Questo diritto incontra poi un rafforzamento a livello nazionale dal fatto che la Legge Fondamentale all’art. 23 Ia obbliga il Bundestag alla presentazione di tale ricorso se un quarto dei suoi membri lo richiede.

2.3. L’attuazione del diritto dell’Unione a livello nazionale
La UE dispone di diverse forme di legislazione dalle quali dipendono le capacità di influenza dei parlamenti nazionali. I regolamenti europei sono immediatamente vincolanti per le istituzioni nazionali: pertanto, non sussiste alcun margine per una partecipazione dei parlamenti nazionali.
Le direttive e le decisioni quadro sono vincolanti per gli Stati membri riguardo allo scopo, ma lasciano spazio relativamente agli strumenti e ai modi per il raggiungimento dell’obiettivo preposto. Per la loro conversione esse dipendono da leggi nazionali, così che in questo caso i parlamenti nazionali entrano di nuovo in gioco.
Una parte rilevante delle leggi nazionali viene in questo modo determinata da norme di diritto comunitario. E’ difficile citare dati attendibili: una ricerca del Bundestag ha indicato che il 30% dell’intera produzione normativa federale è costituita da leggi determinate da diritto comunitario.
La Corte Europea di Giustizia ha costantemente ampliato anche l’efficacia delle direttive.
Nel caso di una conversione in legge nazionale mancante o insufficiente, le direttive sono immediatamente applicabili per quanto consentito dal loro contenuto.
Questo rappresenta uno stimolo a redigerle in modo sempre più dettagliato. In certe condizioni, la loro vincolatività interviene già prima della scadenza del termine fissato per la loro conversione.
Nel caso di mancata osservanza di una direttiva possono essere emanate delle sanzioni economiche molto elevate. Fino ad ora la Corte di Giustizia non ha mai annullato una direttiva per aver eccessivamente ristretto lo spazio di azione degli Stati membri. D’altro canto, il Tribunale Costituzionale federale ha sollecitato il Legislatore tedesco ad utilizzare lo spazio di intervento a sua disposizione anche per sostenere l’efficacia dei diritti fondamentali nazionali.

2.4. Compensazioni per la perdita di importanza dei parlamenti nazionali
Da entrambe le parti, sia europea che nazionale, sono in atto dei tentativi per compensare la perdita di importanza dei parlamenti nazionali nella UE. Molti di essi si esauriscono in un rafforzato coinvolgimento dei parlamenti nazionali nel procedimento legislativo europeo.
I diritti di partecipazione e le possibilità di ricorso a livello europeo sono già stati menzionati.
A livello nazionale si può quasi considerare un tratto caratteristico della giurisprudenza del Tribunale Costituzionale attribuire al Bundestag la responsabilità per il progresso dell’integrazione europea.
Il Tribunale Costituzionale federale ha superato i propri dubbi in merito alla costituzionalità dei Trattati di Maastricht e di Lisbona avendo fatto dipendere i passaggi più importanti del processo di integrazione dall’approvazione del Bundestag.
Nel frattempo, la perdita di rilevanza non può essere compensata da nessuno di questi provvedimenti, che si esauriscono regolarmente nella partecipazione a decisioni assunte da altri. Ciò non è in alcun modo equivalente al potere di decidere autonomamente.
A ciò si aggiunge che spesso l’esercizio dei diritti di partecipazione eccede le capacità dei parlamenti nazionali. La semplice massa di informazioni non è gestibile dai parlamenti degli Stati membri più grandi, che dispongono di un apparato ben organizzato, come i servizi parlamentari a disposizione del Bundestag, figurarsi dai parlamenti degli Stati più piccoli.
Soltanto le informazioni da Bruxelles ammontano ad oltre 500 l’anno, dunque a più di una al giorno. I pareri del Bundestag che vengono comunicati a Bruxelles non arrivano nemmeno al 5% di queste informazioni.
Un caso particolare è quello delle competenze dei parlamenti per l’attuazione del principio di sussidiarietà.
Il principio è stato riconosciuto già nel Trattato di Maastricht del 1992, ma è rimasto assolutamente inefficace.
Le possibilità di ricorso attribuite dal Trattato di Lisbona ai parlamenti nazionali dovrebbero dunque consentire una più efficace validità del principio di sussidiarietà.
Dal momento che i parlamenti nazionali sono le vittime dell’inefficacia del principio di sussidiarietà, ci si attendono da parte loro dei passi importanti per la sua attuazione.
Se questo possa accadere è tuttavia dubbio. I dubbi riguardano da un lato la scarsa disponibilità della Corte di Giustizia a prestare attenzione agli interessi giuridicamente tutelati degli Stati membri. Dall’altro, i dubbi sono giustificati dalla circostanza che l’ineffettività del principio trova le sue ragioni più profonde non nelle possibilità di ricorso a favore dei parlamenti nazionali, finora assenti, ma nella mancante giustiziabilità.
La sussidiarietà è una buona linea guida per l’attuazione di sistemi federali, ma senza un’ulteriore concretizzazione, questo principio rimane troppo indefinito per la risoluzione giurisdizionale di controversie.
Se c’è qualcosa che può essere considerato una political question, è il dover valutare se “gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell'azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione” (art. 5 III TUE).
Il principio di sussidiarietà quale norma decisionale è quindi povera nei contenuti, nella misura in cui la Corte di Giustizia si considera obbligata a respingere i ricorsi per mancanza di giustiziabilità, o a svolgere valutazioni politiche nell’ambito dell’interpretazione del diritto.
Un aspetto è tanto insoddisfacente quanto l’altro.

3. Parlamentarizzazione della UE come compensazione?
Di fronte a questo bilancio, si pone in conclusione la domanda se dunque il Parlamento Europeo sia in grado di compensare sul piano europeo l’erosione del potere legislativo a livello nazionale. Nel rispondere occorre chiaramente ricordare che l’Ue non è uno Stato, e che il suo sistema politico non è una democrazia parlamentare.
L’Unione è una creatura di Stati sovrani che hanno mantenuto il diritto di decidere sull’esistenza, i compiti e la struttura dell’UE. Ciò trova espressione nel fatto che il Consiglio è rimasto l’organo centrale dell’UE, nonostante tutte le modifiche dei trattati.
Il Parlamento Europeo, che ha visto costantemente espandere le proprie prerogative, è nel frattempo più che un mero titolare di un diritto di veto, ma resta ancora lontano da un’equiparazione al Consiglio, e a maggior ragione non vi è in alcun modo superiore.
Spesso viene proposto di modificare questa situazione e di dotare il Parlamento Europeo delle competenze rimaste a disposizione dei parlamenti nazionali.
Il Parlamento Europeo verrebbe così posto al centro della UE e la Commissione verrebbe equiparata ad un Governo parlamentare, mentre il Consiglio sarebbe retrocesso al rango di seconda camera del Parlamento Europeo.
In questa proposta risiede la speranza che il deficit di legittimazione europeo si possa superare solo nel momento in cui l’organo direttamente eletto dai cittadini, e non più il Consiglio - che è legittimato solo a livello nazionale e solo in maniera indiretta -, possa decidere le sorti europee.
Queste aspettative si avvererebbero se l’UE venisse trasformata in un sistema parlamentare sul modello nazionale? Ciò sarebbe presumibile solo se i problemi di legittimazione della UE fossero dovuti alla limitatezza delle competenze del Parlamento Europeo.
Di questo si può chiaramente dubitare. E’ indicativo che la partecipazione alle elezioni europee abbia luogo in misura corrispondente all’entità delle competenze guadagnate dal Parlamento Europeo.
Ciò lascia quanto meno presumere che delle competenze parlamentari troppo limitate non rappresentino la causa più importante del letargo o addirittura del rifiuto manifestato nei confronti dell’Europa da parte delle popolazioni nazionali.
Per questo ci si deve domandare se le cause dei problemi di accettazione non abbiano radici più profonde. Alcune si possono riscontrare a livello istituzionale.
La rappresentatività del Parlamento Europeo è limitata, perché le elezioni europee non sono realmente europeizzate. Con ciò non si vuole solo intendere che malgrado l’affermazione contenuta nel Trattato di Lisbona non esiste ancora un diritto elettorale europeo, e che invece si va a votare secondo le disposizioni del diritto elettorale nazionale. Nemmeno i partiti politici sono realmente europeizzati.
Nella campagna elettorale per il Parlamento Europeo si candidano partiti nazionali che concorrono per il voto degli elettori con programmi elettorali nazionali.
Il risultato elettorale viene analizzato in ottica nazionale. Al momento, nel Parlamento Europeo sono rappresentati non meno di 200 partiti nazionali. Inoltre, i partiti politici in quanto tali non svolgono alcun ruolo decisivo.
Come attori nel Parlamento Europeo figurano assai più i gruppi parlamentari, blande forme di cooperazione di partiti ideologicamente collegati, privi di radicamento sociale. In questo modo si crea la curiosa situazione per cui i partiti per i quali è possibile votare non svolgono alcuna funzione nel Parlamento Europeo, mentre quei partiti che esercitano un certo ruolo in quel contesto non possono essere votati.
Il flusso di legittimazione dai cittadini dell’Unione al loro organo rappresentativo è troncato.
Le modalità di candidatura dei candidati di spicco nelle ultime elezioni per il Parlamento Europeo non ha modificato in nessun modo queste incoerenze.
Questi problemi, legati allo stesso contesto istituzionale, si possono superare a patto di essere disposti ad un’europeizzazione della disciplina elettorale e dei partiti politici.
Ad ogni modo, non è pensabile che così si possano risolvere tutti i problemi di accettazione dell’Unione Europea. I parlamenti possono adempiere alla loro funzione di collegamento tra società e organi politici solo se sono a loro volta radicati nella società che rappresentano, e sono coinvolti in un costante discorso politico nel quale fungono contemporaneamente da comunicatori e ricettori.
Questa sfida non è vinta semplicemente quando i media nazionali riferiscono la prospettiva nazionale su questioni di portata europea: sarebbero assai più necessari dei media europei, per i quali tuttavia mancano le condizioni, viste le differenze linguistiche e le diverse abitudini comunicative.
Dal momento che anche le particolari istanze di collegamento che negli Stati nazionali forniscono un’ampia base strutturale di politica democratica sono debolmente sviluppate nella UE, la democrazia europea rimane anch’essa debole.
A differenza della disciplina elettorale e della regolamentazione dei partiti, tale questione resta in massima parte estranea a riforme di carattere istituzionale.
Non è lecito attendersi rapidi mutamenti a riguardo. Per questa ragione, i valori che danno uno sviluppo ai parlamenti, quali la trasparenza, il dibattito, i controlli, nella UE risultano scarsamente sviluppati.
Il Parlamento Europeo appare dunque più dei parlamenti nazionali minacciato dalle tendenze alla deparlamentarizzazione descritte all’inizio.
La UE non dispone di risorse sufficienti per una autolegittimazione: essa continuerà a dipendere per lungo tempo dalla legittimazione che gli Stati membri le attribuiscono.
Una sua piena parlamentarizzazione, però, taglierebbe fuori proprio questi ultimi, e pertanto non riveste un interesse da un punto di vista democratico.


Link Originale: Nomos, le attualità nel diritto, 2 - 2015 http://www.nomos-leattualitaneldiritto.it/wp-content/uploads/2015/10/Grimm_Nomos-2_2015.pdf