"In Europa ci sono già i presupposti per l'esplosione di un conflitto sociale. Questo è il seme del malcontento, dell'egoismo e della disperazione che la classe politica e la classe dirigente hanno sparso. Questo è terreno fertile per la xenofobia, la violenza, il terrorismo interno, il successo del populismo e dell'estremismo politico."

sabato 29 agosto 2020

Algorithmic Warfare: il futuro della guerra utile anche per applicazioni civili?

 Algorithmic Warfare: utile (forse indispensabile) anche in caso di pandemia


Analisi Difesa, 10 agosto 2020, di Eugenio Santagata, Andrea Melegari


Fino a qualche mese fa il concetto di Algorithmic Warfare era associato esclusivamente al dominio militare.

Si pensava che i futuri combattimenti sarebbero stati caratterizzati da una velocità decisamente superiore alla capacità umana di prendere decisioni.  Risultando, però, del tutto inconcepibile uno scenario che vede i software attaccare gli uomini, e con una velocità di reazione misurabile in millisecondi, lo scenario più probabile che sembra delinearsi prevede algoritmi in lotta contro altri algoritmi. E, forse proprio per questa ragione, tutte le superpotenze mondiali da anni investono miliardi nell’applicazione dell’intelligenza artificiale per la realizzazione di armi autonome.

Pare, ora, che l’Algorithmic Warfare possa trovare un altro ambito di applicazione, divenendo elemento cardine anche nella lotta contro il Covid-19 e contro future pandemie.

È questo il punto principale della USA National Security Commission on Artificial Intelligence, che ha messo nero su bianco il valore delle tecnologie di AI, come strumenti utili per individuare e contenere le pandemie, supportare l’innovazione nella ricerca biologica e migliorare la capacità di “response & recovery”.

La Commissione da cui sono emerse queste considerazioni è stata costituita dal Congresso nel 2019 con l’obiettivo di indagare nuove tecnologie per scopi di difesa nazionale. Nello stesso report, gli esperti suggeriscono investimenti mirati ad aumentare la resilienza rispetto agli effetti di una futura pandemia, preservando un’adeguata capacità di reazione militare.

Come ad esempio il progetto Salus, attualmente in carico al Joint Artificial Intelligence Center, la cui vision è ben rappresentata dal motto “Trasformare il Dipartimento della Difesa attraverso l’Artificial Intelligence”.

L’obiettivo del progetto, iniziato nel marzo di quest’anno, usa l’AI per prevedere la carenza di beni di prima necessità come acqua, medicine e forniture utilizzabili nell’epicentro di una potenziale emergenza pandemica.

Si tratta di fondere e analizzare molte decine di flussi di dati, in parte organizzati in database, in parte di tipo non strutturato (come ad esempio un certificato medico, il referto di un’ecografia, una chiamata al 911, …), per poter reagire immediatamente garantendo presenza sanitaria, mascherine, farmaci, ecc.

In questo contesto non serve reagire in millisecondi, ma assicurare comunque una reattività appropriata per affrontare gli avvenimenti, come purtroppo molto spesso non si è verificato nel caso del Covid-19.

La battaglia contro il Covid-19 ha oramai assunto le dimensioni di una vera e propria guerra globale. Un’emergenza non solo sanitaria ma anche di difesa nazionale. Un contesto dove occorre quindi valutare anche l’impiego di metodologie e tecnologie proprie del dominio militare, come l’Algorithmic Warfare.

I software, però, da soli non bastano: serve capacità di supercalcolo, (tanta) cyber sicurezza, ma soprattutto una cultura pronta ad accogliere l’innovazione tecnologica e capace di saper ascoltare, comprendere e valutare i segnali di allarme generati dall’intelligenza artificiale.


Link: https://www.analisidifesa.it/2020/08/algorithmic-warfare-utile-forse-indispensabile-anche-in-caso-di-pandemia/

lunedì 17 agosto 2020

L'abolizione del contante e la distopia futura

Il denaro elettronico e la distopia tecnologica

di Tommaso Papini, da Zafferano dell’8 agosto 2020



 

Prendiamola alla lontana.

Che cosa si intende per utopia?

Utopia, dal greco "οὐ", cioè "non", e "τόπος", ovvero "luogo", significa letteralmente "non-luogo", cioè un luogo che non esiste. Vale la pena di segnalare che tale parola sia stata coniata da Tommaso Moro e che in origine vi fosse un gioco di parole con l’inglese "eutopia" dove, la particella "εὖ" significa "buono" o "bene", e "τόπος", mi scuserete per la ripetizione, "luogo".

Essa può assumere quindi il significato di “buon luogo" ed al tempo stesso di “non-luogo”. E prendendo sotto mano la Treccani scopriamo che...

... la parola utopia è definita come la formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello; il termine è talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile, astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale (in questo senso utopia è stata contrapposta a ideologia). Un meraviglioso ideale astratto, non realizzabile, ma al quale si può (provare a) tendere. Si può soltanto provare, però, perché intanto non è detto che il sentimento sia condiviso, ma prima di tutto non è scontato che si pensi tutti quanti alla stessa cosa quando ci riferiamo ad un ideale. L’elemento soggettivo è fondamentale in questo caso.

 

E la distopia? "δυς-" fornisce il significato di "cattivo”.  Ancora l’enciclopedia Treccani la definisce come "una previsione, una descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui, contrariamente all’utopia […] , si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi (equivale quindi a utopia negativa)".

Ma se l’utopia è difficile da afferrare, come concetto, ciò non vale necessariamente per la distopia. Un esempio a proposito l'abbiamo sotto gli occhi. Vediamolo.

 

Se un sistema politico, sociale ed economico, prevede, come ha previsto all’incirca fino a 30 anni fa in Italia, uno sviluppo in positivo delle condizioni di vita della società, non stiamo parlando di utopia, in quanto tale sviluppo era molto reale, anche se parliamo comunque di qualcosa di riconducibile al “buono” o al “bene”. Di conseguenza, quando tutto ciò comincia a venire meno, ed anzi, come negli ultimi anni, si accelera in maniera sconcertante verso un peggioramento delle condizioni di vita per via dell’aumento irrazionale di vincoli, costrizioni e sottrazione di diritti (in maniera permanente), forse è più facile figurarsi un assetto simile alla distopia. In esso, tra gli altri, domina il tema dell'inevitabilità.

 

Quante volte ci siamo sentiti ripetere che un certo tipo di futuro fosse inevitabile? Se parliamo di economia il principio del TINA (There Is No Alternative) dovrebbe far suonare qualche campanello. Parimenti dovrebbe farlo il ricordo (più simile a un eterno ritorno) de “i Mercati” che si spaventano in vista di elezioni in un certo Paese o in vista di scelte politiche prese da governi democraticamente eletti, espressione quindi della comunità nazionale. Le crisi, in conseguenza dello spavento dei Mercati, sono proprio quegli strumenti che servono a far prendere  quelle decisioni verso cui normalmente vi sarebbe una grande opposizione. E che dire dei flussi migratori? Stessa storia: l’immigrazione di massa è un fenomeno inevitabile, inarginabile ma anzi da perseguire in vista di una nuova società aperta e mista, meticcia come amano definirla alcuni...

 

Nel campo della medicina e della sanità non possiamo non rammentare l’iter di approvazione del decreto vaccini del ministro Lorenzin, attuatore di una politica sanitaria imposta dall’alto e che doveva trovare accoglimento negli ordinamenti dei vari Stati membri dell’UE. Il ruolo di apripista è toccato all’Italia. Più di recente sono state riportate dalle cronache alcune dichiarazioni di rappresentanti politici riguardo all’eventualità di TSO per chi rifiutasse le cure per il Covid-19 oppure riguardo la richiesta di una legge che autorizzasse le autorità dei territori a deportare i “malati” in strutture alternative alla loro abitazione durante il periodo di “cura”. Anche qui, agisce uno dei componenti principe della distopia: una volontà di controllo che sfiora la mania.

 

E la politica? E "la democrazia"? Qualche mese fa votare in autunno (2020) è stato definito, da alcuni, antiscientifico per via del fatto che si potessero diffondere malattie. Molto probabilmente il prossimo passo sarà il voto elettronico e perché no, da casa usando il proprio smartphone o computer e l’identità digitale.

 

Molto, e da diversi punti di osservazione, ci sarebbe da dire sugli esempi testé riportati e tanto è già stato scritto. Per rimanere in un ambito prettamente teorico possiamo rilevare che essi siano legati dal fatto di: non essere stati richiesti da nessuno, essere presentati come inevitabili e da portare avanti contro il volere dei più, a qualsiasi costo, poiché soluzioni infallibili. Va da sé che se le scelte sono giuste allora non sono più scelte ma, giustappunto, obblighi. In tutto questo l’essere umano è un ostacolo, e allora ben venga un’intelligenza artificiale che superi le fallibilità dell’uomo ed il suo libero arbitrio. Anche durante la “rivoluzione digitale” l’essere umano è sempre al centro della riflessione, ma come oggetto da sorvegliare e dominare e non certo come essere sociale. Da esso non nascono le istanze ma, contro di lui, sono rivolte.

 

E qui arriviamo al tema di questo articolo: il contante e l'attuale deriva cashless.

Le forme di pagamento elettroniche sono spesso dipinte come latrici soltanto di virtù salvifiche e sono quindi parte di una politica col “pilota automatico”, a prescindere che la comunità ne senta il bisogno e voglia davvero procedere in quella direzione e che eventualmente si organizzi in una qualche forma di protesta. Al giorno d’oggi il digitale in generale promette di migliorare parti e funzioni dell’essere umano. Le varie forme di pagamento elettronico sono solo una parte, importante, di questo puzzle.

 

Le transazioni digitali ci viene detto che sono tracciabili e che potrebbero fare emergere “il nero”, ovvero l’economia sommersa, e magari porre fine ai facili guadagni delle attività criminali. Invero la letteratura scientifica è piena di contributi autorevoli nei quali questi miti vengono ridimensionati, se non proprio spesso smentiti.

 

Basterebbe però il buon senso per storcere il naso di fronte a tali dichiarazioni quando sui giornali si leggono le cifre sbalorditive dell’elusione ed evasione fiscale delle grandi multinazionali nei paesi UE. Tali cifre raggiungono tranquillamente l’ordine dei 6 miliardi di euro per quanto riguarda la sola Italia, e no, le multinazionali non eludono/evadono trasportando su camion, treni o aerei, diverse tonnellate di cartamoneta. Quanti idraulici, imbianchini e muratori ci vorranno per mettere assieme cifre del genere?

A livello comunitario uno studio del 2016 pubblicato dal Parlamento europeo stima, in maniera conservativa, che il gettito evaso annualmente dalle multinazionali nei paesi UE ammonti a 160-190 miliardi di euro.

Tutta colpa del contante…

 

Evidentemente lo scopo che la “rivoluzione” digitale si prefigge non è quello dichiarato. Non essendo quello dichiarato evidentemente lo scopo, come dice il Pedante, è un altro. Azzardando un’ipotesi si potrebbe sospettare che il sistema economico nel quale siamo bloccati soffra di rendimenti drammaticamente decrescenti e che per salvarsi debba accumulare "espropriando". Siccome le persone, dopo un po’ di tempo passato nelle difficoltà, tendono a manifestare dissenso allora si rende necessario attuare una qualche forma di controllo sociale.

 

In un mondo dove tutte le transazioni sono elettroniche per prima cosa, di transazione in transazione, il denaro perderà valore per via delle commissioni, e, mancando l’elemento fisico, non si potrà detenere i propri risparmi finendo così per doversi fidare della solidità del sistema bancario nazionale ed internazionale. Possiamo sorvolare sugli ultimi 12 anni di crisi economica. Tutte le nostre spese, preferenze di consumo, attività (i cosiddetti Big Data dal valore inestimabile per le multinazionali), verrebbero ad ogni modo tracciate ed abbiamo già visto casi in cui anche il più sofisticato sistema informatico possa essere oggetto ad un attacco da parte di hacker. Dopo tutto l’intelligenza artificiale è intelligente quanto chi l’ha programmata.

 

Proviamo, dunque, per esercizio intellettuale, a delineare una vera distopia tecnologica utilizzando degli esempi plausibili ed attuali.

Quanto tempo passerebbe prima che si possano determinare, tramite un algoritmo si intende, le cure di cui una persona ha diritto in base alle spese (tutte tracciatissime) che compie in generi alimentari? Più i mezzi finanziari a disposizione sono scarsi e più l’alimentazione della persona in questione potenzialmente ne può risentire e, a cascata, la sua salute. Una cattiva alimentazione potrebbe quindi condurre alla privazione delle cure (una volta ravvisato l’acquisto di cibi ad alto contenuto calorico), ad una spesa in proporzione maggiore, oppure a delle limitazioni di qualche tipo come ad esempio la discesa negli inferi del fondo di una graduatoria.

 

In questo momento si stanno sperimentando chip da impiantare sottopelle con la capacità di contenere informazioni sanitarie dell’individuo, identità digitale, un badge con cui entrare a lavoro financo le informazioni bancarie con cui effettuare i pagamenti quotidiani.

 

L’“internet delle cose” è alle porte, ovvero la facoltà di collegare ad internet il forno o l’asciugacapelli (anche se nessuno ne ha mai sentito il bisogno), mentre già colleghiamo il nostro smartphone alla nostra auto. Non è certo improponibile l’idea che un domani ci si possa connettere, tramite il sopracitato chip, alla nostra vettura a guida autonoma, rigorosamente elettrica ed assicurata dal suo stesso produttore. Forse in futuro le auto a guida autonoma, interfacciando il loro software con i chip sottopelle, potranno determinare, in caso di incidente, se la vita degli occupanti possa essere degna di essere salvata rispetto ai possibili danni collaterali a persone o cose.

È un dipinto fin troppo realistico.

 

Proviamo a fare un altro giro nella spirale, un altro collegamento, e a trasformare quanto detto in un racconto di fantascienza distopica.

Il protagonista del nostro breve racconto si chiama Carlo. È un professore universitario che lavora nel sud Italia. Negli ultimi anni, per ottemperare alle regole della disciplina di bilancio, gli stipendi di tutti i dipendenti pubblici italiani sono stati ricalcolati in base al costo della vita dell’area geografica in cui si risiede. Il sistema di posizionamento Galileo è stato ulteriormente migliorato e si è sempre sotto controllo. La crisi ha colpito anche lui che fino a quel momento era riuscito a mantenere un buon livello di vita.

 

Carlo possiede un’auto a guida autonoma. Il chip si collega al software e così può procedere all’accensione. In quel momento vengono scambiate tutte le informazioni. Carlo seleziona il suo percorso abituale casa-lavoro e l’auto finalmente parte. Durante la strada un bambino in monopattino invade accidentalmente la carreggiata. L’impatto è imminente, poche e rischiose le vie di fuga. O si salva il bambino, provocando grossi danni all’auto e al suo occupante, oppure si tenta una manovra che potrebbe mettere in pericolo altri utenti della strada ma che potenzialmente, con un po’ di fortuna, potrebbe non recare grossi danni.

 

Il computer calcola velocemente: in quel momento è in contatto anche con i chip dei pedoni e delle auto attorno. La manovra che potrebbe, forse, salvare tutti quanti è giudicata troppo azzardata. Carlo non rientra nei parametri della persona da salvare. Ha 60 anni ed è malato, la sua vita non è degna di essere salvata e quindi la sua auto esce di strada andando ad impattare contro un muro. Carlo muore, senza possibilità di scelta.

Che ne è dell’essere umano senza il pensiero, la scelta, l’arbitrio? Niente.

 

Questo è realmente distopico. The Sky’s the limit, o meglio: The Hell’s the limit.

 

Link originale: https://zafferano.news/rubrica/speciale-cashless-3/z73-il-denaro-elettronico-e-la-distopia-tecnologica 

lunedì 3 agosto 2020

I rapporti tra Turchia e Nato: dal romanzo alla realtà?

Cacciare la Turchia dalla NATO?

Da Analisi Difesa, 15 luglio 2020 di Giuseppe Cucchi



 

Cacciare la Turchia dalla NATO è indubbiamente una tentazione che si fa di giorno in giorno più incalzante, alimentata dal modo in cui il Paese anatolico, e soprattutto il suo “uomo forte” procedono sulla scena della politica internazionale, del tutto indifferenti al danno o al fastidio che alcuni dei loro atti possono provocare a quelli che – almeno in teoria – sono ancora formalmente loro alleati a tutti gli effetti.

Sono ormai parecchi anni che le cose procedono in questo modo e che l’Alleanza è sottoposta da Ankara a continue provocazioni e ricatti. Per non parlare poi di quelli che, pur senza interessare direttamente il Patto Atlantico, feriscono tuttavia o il suo pilastro europeo o quello di oltre Oceano.


Così gli Stati Uniti si sono visti negare in più occasioni l’uso di basi che pure in alcuni momenti sarebbero risultate preziose. Un rifiuto, tra l’altro, che in alcuni casi si è anche chiaramente configurato come un sostegno indiretto fornito da Erdogan a regimi o movimenti islamici estremisti.

Così l’Unione Europea è stata e rimane costantemente sottoposta al ricatto dei profughi-migranti che ha avuto il torto di accettare la prima volta invece di sigillare ermeticamente le proprie frontiere e mandare al diavolo chi proponeva il baratto. Ed in materia di ricatti si sa che chi cede una volta…..

Così l’intero Occidente ha dovuto accettare prima che Ankara si crogiolasse con l’ISIS in una apparente neutralità che in molte occasioni sconfinava in aperta complicità, poi che essa attaccasse, oltretutto servendosi per buona parte di milizie irregolari legate all’estremismo islamico, quei curdi che erano stati i nostri migliori alleati nel crogiolo medio orientale.

Così una serie di decisioni unilaterali di Ankara ha portato il disordine nelle acque mediterranee, cambiato le carte sul tavolo in Libia, ridato fiato ad una “Fratellanza Musulmana” che si sperava ridotta agli estremi e, ultimamente, restituito alla condizione di moschea la chiesa di Santa Sofia ad Istanbul, nonostante ciò potesse suonare come uno schiaffo deliberatamente inflitto all’intero ecumene cattolico ed ortodosso.

Quanto all’Alleanza Atlantica poi, essa è stata direttamente ferita dalla decisione di Erdogan di acquistare armamenti controaerei e reattori nucleari in Russia, una decisione su cui il Presidente turco non ha più acconsentito a ritornare nonostante gli sia costata il blocco della prevista fornitura statunitense di aerei F-35.

Ce ne è abbastanza per iniziare a considerare la Turchia non più come un fedele alleato, come essa era vista ai tempi di quel controllo militare sul paese di fronte a cui le nostre democrazie storcevano il naso incapaci di rendersi conto della sua funzione di estrema garanzia, bensì come un pericolo immanente, un costante elemento di destabilizzazione per tutta quella area mediterranea che per la NATO è di estremo interesse?

Certamente sì, e sarebbe a questo punto anche il caso di chiederci che cosa ci stia a fare un membro di questo genere in seno ad una Alleanza che dovrebbe essere il faro della sicurezza, della stabilità e della democrazia in tutta l’area Nord Atlantica.

Oltretutto lo status di membro della Turchia potrebbe permetterle , in un domani che si spera resti ipotetico, di paralizzare qualsiasi eventuale azione dell’Alleanza che risulti  non di suo gradimento .
Non sembra comunque che l’urgenza del problema di che cosa fare di questo alleato a dir poco scomodo sia sentita come tale dai vertici della NATO che sino ad oggi, probabilmente procedendo su una linea condivisa con il “Grande Fratello” americano, si sono rifiutati di iniziare qualsiasi discussione anche informale al riguardo.

A chi poneva dall’esterno la domanda sono state cosi opposte costantemente le medesime due obiezioni. La prima, di carattere formale, consiste nel fatto che il Trattato del Nord Atlantico, pur prevedendo esplicitamente il caso e la procedura per il ritiro volontario di un membro dall’Alleanza, non si esprime invece sull’eventualità che esso venga invitato, o costretto, ad andarsene dalla volontà congiunta di tutti gli altri associati.

Quello che non viene mai indicato è però come un altro articolo sancisca come basterebbe la richiesta di un solo partner per aprire la via ad una eventuale revisione che consenta di rimediare alla mancanza.
La seconda obiezione, di carattere storico/pratico questa volta, è centrata poi sul modo in cui, anche nei momenti più delicati della sua e della loro storia, la NATO non abbia mai considerato provvedimenti tanto drastici nei riguardi dei propri membri.

Al massimo essa si è limitata ad applicare nei loro confronti quella specie di “periodo di quarantena” non dichiarato che nella pratica, anche se non formalmente, li escludeva dalle maggiori decisioni.
Si trattò di un provvedimento che venne a suo tempo utilizzato verso la “Grecia dei Colonnelli”, verso il “Portogallo della rivoluzione dei garofani ” ed anche nei riguardi dell’Italia, per lo meno nel 1976 allorché sembrava che il PCI di Berlinguer potesse diventare maggioritario nel nostro paese.

Anche qui vi è comunque qualcosa che non viene detto esplicitamente. La quarantena dei reprobi di turno fu resa infatti possibile da una silente approvazione del provvedimento da parte degli interessati che trovarono più conveniente tacere e continuare a rimanere membri piuttosto che finire col rischiare di mettere in discussione la loro appartenenza alla Alleanza, con tutto ciò che da tale condizione derivava.

 

Non sembra che in questo momento tale sia il caso né della Turchia né del Presidente Erdogan che ne è l’espressione pubblica di vertice.  Basta far mente locale alla feroce arroganza con cui egli ha definito “intromissione negli affari interni turchi ” le civili proteste di buona parte del mondo nei riguardi della trasformazione in moschea di Santa Sofia per rendersi infatti conto di come Ankara reagirebbe nel vedersi silenziosamente esclusa dai giochi maggiori della Alleanza.

Cosa fare allora? E per quanto continuare a sopportare un rosario di eventi e di forzature collegate l’una all’altra che ricorda molto tanto nel modo, quanto negli effetti, quanto infine nell’impatto sulla opinione pubblica occidentale quello che fu il comportamento delle grandi dittature europee negli anni Trenta del secolo scorso?

Certo, perdere la Turchia significherebbe lasciare quasi sguarnito il fianco sud-est della nostra Alleanza e ciò potrebbe rivelarsi poco prudente, almeno sino a quando rimarranno aperti con la Russia i vari contenziosi in atto.

 

Link originale: https://www.analisidifesa.it/2020/07/cacciare-la-turchia-dalla-nato/