Cosmopolitismo,
universalismo e Unione Europea
Di Andrea Zhok
Oggi è apparso sul Manifesto un articolo
della professoressa Roberta De Monticelli dall’impegnativo titolo:
Nell’articolo De Monticelli, dopo aver lamentato la superficialità dell’attuale
dibattito intorno all’Europa, rivendica una matrice filosofica alta come
ispirazione e viatico del ‘progetto europeo’.
Al netto del condivisibile sconforto per
l’attuale campagna elettorale, si potrebbe obiettare subito come la
contestazione all’odierno ‘europeismo’ non si muova di norma con riferimento a
nobili istanze come l’idealità cosmopolita, ma con più prosaico riferimento ad
un sistema ha prodotto una crescita europea stagnante, la deindustrializzazione
di molti paesi (tra cui l’Italia) e una costante riduzione del potere
contrattuale dei lavoratori.
Ma fingiamo che tutto ciò non sia essenziale.
Ipotizziamo che il tema siano Kant e Rawls e non la macelleria sociale greca. E
continuiamo pure nell’equivoco per cui l’antieuropeismo sarebbe una proterva e
irragionevole ostilità all’Europa – e non all’Unione Europea -, accettiamo
protempore tutto questo e proviamo ad esaminare gli argomenti specificamente
filosofici che vengono sollevati da De Monticelli.
Due argomenti giocano un ruolo centrale.
Il primo vede nell’Unione Europea
“il vero e proprio cantiere di un edificio
politico architettato dalla filosofia: cioè dall’anima universalistica del
pensiero politico, che è almeno tendenzialmente cosmopolitica.”
Il secondo specifica il carattere di questo
‘universalismo’ in opposizione all’accidentalità della nascita:
“Cosmopolitica è (…) la forma di una
civiltà fondata nella ragione (…). La domanda di ragione e giustificazione è
quanto di più universale ci sia. (…) Esser nato in un deserto, o in una
contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente della
nascita. (…) Ogni ingiustizia si lega all’accidente della nascita.”
1) Il primo argomento pone un’equivalenza
tra cosmopolitismo e universalismo della ragione, concependo dunque il
cosmopolitismo europeista come erede della tradizione filosofica nel suo nucleo
portante, quello che riconosce l’universalità della ragione.
2) Il secondo argomento qualifica tale
universalismo opponendolo alla contingenza, e specificamente a quella
particolare contingenza che è l’essere nato in un certo tempo e luogo, posto
come base dell’idea di nazionalità.
Sotto queste premesse, l’Unione Europea si
presenterebbe come incarnazione dell’universalismo della ragione, volta a
superare gli accidenti della nascita (e nello specifico gli accidenti che
determinano l’identità nazionale).
Nel prosieguo proverò a spiegare, in breve,
perché ritengo che entrambe queste tesi contengano degli errori. Sono errori
interessanti, come sempre sono gli errori filosofici, ma non perciò meno
radicalmente fuorvianti e dannosi di errori più volgari.
L’idea che universalismo e cosmopolitismo
siano in qualche modo considerabili in equivalenza è un’idea assai curiosa. Si
ritiene, apparentemente, che le esperienze, o forse le ‘inclinazioni’,
cosmopolite siano latrici di un ampliamento delle prospettive, un ampliamento
che conferirebbe un particolare privilegio, ovvero la capacità di uscire dal
proprio ‘particulare’ e di accedere ad una visione esente da pregiudizi e
parzialità. L’opposizione chiaramente evocata è quella tra l’equanimità della
ragione e il torvo egoismo dei ‘particolarismi’.
Ora, l’equivalenza tra universalismo e
cosmopolitismo, una volta che la si guardi da vicino, risulta subito destituita
di ogni fondamento.
Che una semplice ‘inclinazione’ cosmopolita
non sia di per sé capace di superare pregiudizi e parzialità è piuttosto ovvio.
Per capirlo basterebbe rammentare le idee sulle razze umane, di parvenza oggi
alquanto imbarazzante, di quel genio, cosmopolita e razionalista, di Immanuel
Kant.
Ma l’idea che esperienze di tipo
cosmopolita possano veicolare una visione emancipata da pregiudizi e parzialità
può sembrare prima facie più convincente. Dopo tutto, chi può negare che fare
più esperienze ‘ampli gli orizzonti’? Bene, ma per uscire dalla vaghezza è
importante capire di cosa parliamo quando nominiamo il ‘cosmopolitismo
europeo’.
I ‘cosmopoliti’ non sono semplicemente ‘quelli che vanno all’estero’.
Naturalmente non lo sono i semplici turisti.
E non lo sono certo neppure i migranti per necessità (passare dallo stringere
bulloni a Termini Imerese allo stringere bulloni a Uppsala difficilmente può
contare come progresso spirituale verso l’universalismo della ragione).
No, il ‘cosmopolita’, il ‘cittadino del mondo’ di cui qui si parla, è
semplicemente un membro di quei ceti economicamente, socialmente, e talvolta anche
culturalmente privilegiati, che scelgono di passare periodi della propria vita,
per lavoro o per diletto, in più o meno prestigiose sedi estere. Ora, – come
ricorda Vincenzo Costa nel suo recente Élites e populismo – è importante
comprendere come il ‘mondo della vita’ di questi ceti sia e resti una sezione
trasversale, altamente astratta e sterilizzata, del mondo reale. I ceti
cosmopoliti che vedono il mondo dalle loro magioni nel centro di Londra, Parigi
o Milano sono vittime di settorialità esperienziale non meno dei panettieri di
Tor Bella Monaca o dei barbieri di Petroupoli o Florisdorf. Invero le élite
cosmopolite, a ben vedere, sono vittima, oltre che dei propri limiti
esperienziali, anche di un rimarchevole grado di presunzione, che li lascia immaginare
di avere uno sguardo più comprensivo e lungimirante, e di potersi perciò
concepire come ‘avanguardie’ del progresso a venire.
Le certezze dei cosmopoliti sono
semplicemente pregiudizi in cofanetto de luxe.
Commento a (2)
Il secondo argomento sollevato è di
particolare interesse, perché si tratta di un errore teorico diffuso.
L’universalismo viene opposto (in maniera tecnicamente impropria) alla
contingenza o accidentalità. All’universalismo viene poi attribuito un compito
schiettamente morale, ovvero quello di ‘superare la contingenza’.
Tradotto in una proposizione, quanto viene
qui sostenuto ha la seguente forma:
“Io, che sono un soggetto razionale come
te, sono però consegnato alla contingenza di una nascita localmente
determinata, che limita la mia aspirazione all’universalità. – Tale contingenza
contrasta con la mia natura di soggetto razionale ed è razionalmente
ingiustificabile; essa perciò, a causa della sua natura ingiustificata,
arbitraria, va corretta.”
Ora, però, in termini di analisi concreta:
cosa ci si immagina di poter o dover ‘correggere’ della ‘contingenza’ in nome
dell’universalismo? Nel testo in questione ci si focalizza sulla territorialità
della nascita, ponendola come contingenza ingiustificabile da superare. Ma
perché concentrarsi proprio su questa ‘contingenza ingiustificabile’? Dopo
tutto non è parimenti una ‘contingenza ingiustificabile’ anche il mio corpo,
con la sua struttura e le sue facoltà? E che dire della mia intelligenza o
forza di volontà? E a ben vedere anche la mia stessa appartenenza alla specie
umana e al novero dei ‘soggetti razionali’, mica l’ho decisa io? Tutte queste
sono cose che nessuno di noi ha deciso, che ci sono, se ci sono, senza nessuna
giustificazione. Sono cose che ci siamo ritrovati, e a partire dalle quali,
traendone il meglio di cui eravamo capaci, e facendocene carico, abbiamo
cercato di tracciare una nostra strada su questo contingentissimo pianeta.
Ecco, ora la domanda è: in che senso la mia
nascita in un tempo e luogo, la mia educazione, la mia lingua madre, la cultura
materiale in cui sono cresciuto e in cui sono diventato ciò che sono, in che
senso tutto questo sarebbe un arbitrio da superare nel nome dell’universalismo
in quanto ‘non-contingenza’? E chi sarei io, il soggetto chiamato a svolgere tale
superamento, una volta tolte tutte quelle contingenze? In che senso, la
contingenza della mia territorialità o cultura sarebbero da superare, mentre
non sarebbe parimenti da superare, per dire, la mia appartenenza alla specie
degli ‘animali razionali’? Dov’è qui il discrimine in cui io posso dire che la
mia nascita, crescita ed educazione non sarebbero davvero ‘io’, mentre il mio
genoma, quello sì ‘sono davvero io’?
In verità, l’universalismo astratto e
matematizzante che viene qui implicitamente ammesso è insostenibile. Io sono
ciò che sono in quanto nato e cresciuto, in quanto sono divenuto ciò che sono,
e non certo in quanto ho deciso o deliberato ciò che potevo essere. (E, a fil
di logica, come avrei potuto farlo, se non essendo già qualcosa che a sua volta
non posso aver deciso io?).
Detto questo, quell’universalismo astratto
non è affatto l’unico universalismo concepibile. Al contrario, a ben vedere
esso è propriamente inconcepibile. Dalla posizione che io sono e incarno io
posso riconoscere posizioni e incarnazioni altrui: posso riconoscere, in modo
perfettamente razionale ed universalizzabile, che la mia appartenenza
territoriale, comunitaria, nazionale concorre a definirmi, così come
l’appartenenza territoriale, comunitaria, nazionale di un abitante di Sapporo,
Budapest, York, Adelaide o Cuzco, concorre a definire loro. E ciascuno di noi,
a partire dalla propria cultura (che non ha deciso), dalle proprie facoltà
cognitive (che non ha deciso) e dalla propria capacità empatica (che non ha
deciso) può decidere di aiutare qualcun altro ad uscire dalle sue difficoltà,
che sono proprio sue, e non di un soggetto ideale disincarnato, astorico e non
situato. Lo può fare perché può comprendere, in qualche misura, la specificità
della situazione altrui e le sue difficoltà contestuali. Per farlo con
convinzione e motivazione, comprendere la specificità della situazione altrui,
lungi dall’essere di impaccio, sarà essenziale. Al contrario, lo sguardo da
lontano, che si presume disincarnato e superiore alle incarnazioni storiche,
corporee e pratiche non è affatto uno sguardo che muove né alla compassione né
all’aiuto. L’operazione di ‘comprendere il punto di vista dell’altro’ è
un’operazione che ha senso solo quando si ammette che l’altro ha appunto un
punto di vista, una posizione reale, e si simpatizza con esso, con il suo
essere situato.
Questo, tradotto dal piano soggettivo a
quello politico significa che è la nostra dimensione di appartenenza a
definirci innanzitutto per ciò che siamo, e che tale dimensione è condivisa
universalmente, da ciascuno con la sua appartenenza. E tutto ciò può permettere
perfettamente riconoscimento, rispetto, e simpatia vicendevoli. Come italiano,
che assume su di sé la sua nascita, cultura, educazione, posso simpatizzare con
un fratello greco o austriaco o scozzese, stimandone la determinatezza delle
forme di vita; e l’altro può fare lo stesso nei miei confronti. La mia
appartenenza mi consente di capire la tua, e di esservi solidale. Per lo
sguardo nutrito dalla mancanza di appartenenza, invece, gli individui e i
gruppi reali sono solo astrazioni, concetti, forse numeri, enti
interscambiabili.
L’universalismo che sembra ovvio nella
prospettiva di De Monticelli è l’universalismo disincarnato dello ‘sguardo da
nessun luogo’, del ‘punto di vista di Dio sul mondo’. Ma, per fortuna o per
disdetta, il punto di vista di Dio sul mondo non lo possiamo incarnare affatto,
e neppure immaginare propriamente.
E credere di poterlo incarnare e immaginare
è solo una forma di Hybris, eticamente poco raccomandabile.
Riassumendo quanto detto.
Universalismo e cosmopolitismo non solo non
sono sovrapponibili, ma non sono neanche vicini di casa.
Quanto all’appello all’universalismo, esso
non può essere quello sguardo disincarnato e destoricizzato che pretende di
essere, e non può, né di fatto né di diritto, abolire gli ‘accidenti della
nascita’.
Per tutte queste ragioni, è opportuno
lasciare serenamente in pace la filosofia, evitando di chiamarla
improvvidamente in soccorso di quello spregiudicato pasticcio neoliberale che
prende il nome di Unione Europea.
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