Si stringe il
bavaglio globale sull’informazione
DA "VoCI DALL'ESTERO", Di Rododak - Settembre 3, 2019
Un articolo
dell’autorevole settimanale inglese The
Economist passa in rassegna a 360 gradi le molteplici minacce
alla libertà di informazione e di parola, che aumentano in tutto il mondo. Se
nei paesi non liberi il pericolo viene dai governi che perseguitano i
giornalisti indipendenti e i dissidenti, nelle democrazie mature è il culto del
politically correct e la difesa sempre più violenta delle minoranze deboli – o
presunte tali – che si sta trasformando in una minaccia per chiunque osi
esprimere opinioni non allineate. Tra i possibili strumenti per imbavagliare la
libertà di parola è citato anche il diffondersi delle leggi contro l’hate
speech, fenomeno difficile da valutare oggettivamente, che rischiano di
trasformare qualsiasi critica in un reato perseguibile penalmente.
17 agosto 2019
Sia negli stati
democratici sia in quelli autoritari alzare la voce diventa sempre più
difficile
Il 22 giugno in Etiopia
si è verificato un presunto tentativo di colpo di stato. Il capo del
personale dell’esercito è stato ucciso, così come il presidente dell’ Amhara,
una delle nove regioni del paese. I cittadini comuni in Etiopia cercavano
disperatamente di capire che cosa stesse succedendo. E poi il governo ha
sospeso Internet. A mezzanotte, circa il 98% dell’Etiopia era offline.
“La gente riceveva
notizie distorte ed era molto confusa su ciò che stava accadendo… in quel
preciso istante non c’era alcuna informazione“, ricorda Gashaw Fentahun,
giornalista presso l’Amhara Mass Media Agency, un ente di informazione
statale. Lui e i suoi colleghi stavano provando a realizzare un resoconto
degli avvenimenti. Invece di caricare file audio e video in digitale,
hanno dovuto inviarli alla sede principale in aereo, il che ha causato un
enorme ritardo.
L’anno scorso 25
governi hanno imposto blackout su Internet. Soffocare la connessione fa
infuriare le persone e mette in ginocchio le economie. Tuttavia, gli
autocrati ritengono che ne valga la pena, di solito per impedire che le
informazioni circolino durante una crisi.
Questo mese il governo
indiano ha chiuso Internet nel contestato Kashmir, per la 51esima volta
quest’anno. “Non ci sono notizie, niente”, afferma Aadil Ganie, un
cittadino del Kashmir bloccato a Delhi, aggiungendo che non sa nemmeno dove sia
la sua famiglia, perché sono bloccati anche i telefoni. Negli ultimi mesi
il Sudan ha chiuso i social media per impedire ai contestatori di organizzarsi,
il regime del Congo ha disattivato le reti mobili in modo da poter truccare le
elezioni di nascosto, e il Chad ha azzoppato i social media, per mettere a tacere
le proteste contro il piano del presidente di rimanere al potere fino al 2033.
Lingue
legate
La libertà di parola è
dura da conquistare e facile da perdere. In Etiopia solo un anno fa era
fiorita, durante il mandato di un nuovo primo ministro apparentemente
liberale, Abiy Ahmed. Tutti i giornalisti in prigione sono stati
rilasciati e sono stati aperti centinaia di siti web, blog e canali TV
satellitari. Ma ora il regime ci sta ripensando. Senza una dittatura
a contenerla, la violenza etnica è divampata. I fanatici hanno incitato
alla pulizia etnica sui social media da poco resi liberi. Quasi 3 milioni
di Etiopi sono stati cacciati dalle loro case.
L’Etiopia sta
affrontando una vera emergenza e molti etiopi ritengono ragionevole che il
governo metta a tacere chi sostiene la violenza. Ma durante il
presunto colpo di stato il governo ha fatto molto di più: di fatto ha messo a
tacere tutti. Come ha scritto Befekadu Haile, giornalista e attivista: “Nell’oscurità,
tutto quello che succedeva è stato raccontato dal governo“.
Alcuni ora temono un
ritorno ai giorni bui dei predecessori di Abiy, quando i blogger dissidenti
venivano torturati. Il regime possiede ancora camionate di kit elettronici
per spiare e censurare, molti dei quali acquistati dalla Cina. Sta inoltre
progettando di rendere reato l’ “hate speech” (discorsi caratterizzati da forte
aggressività e violenza, ndt), con una legge che potrebbe
richiedere una sorveglianza di massa e un attento monitoraggio dei social media
da parte della polizia. Molti temono che la legge verrà utilizzata per
bloccare anche i dissidenti pacifici.
Secondo Freedom House,
organizzazione che osserva le condizioni di libertà e democrazia nei paesi, la
libertà di parola negli ultimi dieci anni è diminuita a livello globale. I
regimi repressivi lo sono diventati ancora di più: tra quelli classificati come
“non liberi” da Freedom House, il 28% ha stretto ulteriormente il guinzaglio
negli ultimi cinque anni; solo il 14% lo ha allentato. I paesi
“parzialmente liberi” hanno avuto le stesse probabilità di migliorare o
peggiorare, ma i paesi “liberi” sono regrediti. Circa il 19% di questi (16
paesi) è diventato meno tollerante verso la libertà di parola negli ultimi
cinque anni, mentre solo il 14% è migliorato (vedi mappa).
Questo è avvenuto per
due ragioni principali. In primo luogo, i partiti al potere in molti paesi
hanno trovato nuovi strumenti per sopprimere fatti e idee che li mettono in
difficoltà. In secondo luogo, si sentono incoraggiati a usare questi
strumenti, in parte anche perché il sostegno globale alla libertà di parola si
è indebolito. Nessuna delle superpotenze del mondo ha intenzione di
difenderla. La Cina censura spietatamente il dissenso in patria ed esporta
la tecnologia per censurarlo all’estero. Gli Stati Uniti, un tempo
sostenitori della libera espressione, sono ora guidati da un uomo che dice cose
del genere:
“Non vogliamo certo
soffocare la libertà di parola, ma … non penso che i media mainstream siano la
libertà di parola … perché sono così disonesti. Quindi, per me, la libertà
di parola non è che tu veda qualcosa di buono e scriva volutamente che è
cattivo. Per me questo è un discorso molto pericoloso, che mi fa
infuriare.”
Davvero? Ma vedere
qualcosa che il governo presenta come positivo e sottolineare perché è negativo
è una funzione essenziale del giornalismo. In effetti, è una delle
garanzie più cruciali della democrazia. Il presidente Donald Trump non ha
la facoltà di censurare i media in America, ma le sue parole contribuiscono a
un clima globale di disprezzo per il giornalismo indipendente. Gli
autocrati che ovunque promuovono la censura citano spesso gli slogan di Trump,
il quale definisce le notizie critiche “fake news” e i giornalisti critici
“nemici del popolo”.
L’idea che certe
opinioni debbano essere messe a tacere è popolare anche a sinistra. In
Gran Bretagna e in America gli studenti impediscono di parlare agli oratori che
ritengono essere razzisti o transfobici, mentre gli attivisti su Twitter
chiedono che sia chiuso l’account di chiunque violi un elenco di tabù in
continua espansione. Molti radicali occidentali pretendono che, se
qualcosa a loro parere è offensivo, nessuno debba essere autorizzato
a dirlo.
I regimi autoritari,
ovunque, concordano. Ma giudicare qualcosa “offensivo” è soggettivo,
quindi le leggi sull’hate speech possono diventare strumenti elastici per
criminalizzare il dissenso. A marzo il Kazakistan ha arrestato Serikzhan
Bilash per “incitamento all’odio etnico”. Si era lamentato
dell’incarcerazione di massa degli Uiguri in Cina, grande partner commerciale
del Kazakistan. Il governo del Ruanda interpreta quasi ogni critica che gli
viene posta come sostegno a un nuovo genocidio. In India sono state
proposte nuove regole che richiederebbero che le piattaforme digitali blocchino
tutti i contenuti illegali, un compito difficile se pensiamo che in India è
illegale promuovere la disarmonia “per motivi di religione, razza, luogo di
nascita, residenza, lingua, casta o comunità o qualsiasi altro
motivo”.
Un modo per stroncare
la libertà di parola è uccidere l’oratore. Almeno 53 giornalisti sono
stati uccisi sul lavoro nel 2018, leggermente più che nei due anni precedenti,
secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ ), un’organizzazione di
controllo. Pochi degli omicidi sono stati catturati. Il paese più
letale per i giornalisti è stato l’Afghanistan, dove ne sono stati uccisi
13. In un caso, un jihadista si è travestito da giornalista, in modo da
mescolarsi e massacrare i primi reporter e medici ad arrivare sulla scena di un
precedente attentato suicida.
Forse l’omicidio più
sfrontato del 2018 è stato quello di Jamal Khashoggi, un critico del regime
saudita. Una squadra di killer è sbarcata in Turchia su jet privati
facilmente identificabili, ha guidato un’auto di lusso fino al consolato
saudita di Istanbul e ha fatto a pezzi Khashoggi in territorio
consolare. Chiunque abbia ordinato l’azione presumibilmente ha pensato che
non ci sarebbero state serie conseguenze dal massacro di un collaboratore
del Washington Post. Aveva ragione. Sebbene Germania, Danimarca
e Norvegia abbiano bloccato le vendite di armi all’Arabia Saudita, Trump ha
sottolineato che l’America rimarrà il “partner fisso” del regno.
Il 1° dicembre 2018
il CPJ ha contato più di 250 giornalisti in prigione a causa del loro
lavoro: almeno 68 in Turchia, 47 in Cina, 25 in Egitto e 16 in Eritrea. Il
numero reale è sicuramente più alto, dal momento che molti giornalisti sono
detenuti senza accuse e senza nemmeno che lo si sappia. Tuttavia, il
numero in Eritrea potrebbe essere inferiore, poiché quasi tutti sono stati
tenuti in condizioni terribili da quando il presidente Issaias Afwerki ha
chiuso i media indipendenti nel 2001, e alcuni probabilmente sono morti.
Piuttosto che rischiare
la seccatura e la cattiva pubblicità di mettere i giornalisti sotto processo,
alcuni regimi cercano di renderli docili intimorendoli. In Pakistan,
quando gli ufficiali militari chiamano i giornalisti per lamentarsi di un
articolo, questi in generale si piegano. Ahmad Noorani, un
giornalista che ha osato scrivere del ruolo dell’esercito in politica, è stato
coinvolto in un’imboscata da sconosciuti assalitori in una strada trafficata
della capitale, Islamabad, e picchiato quasi a morte con un piede di porco.
In India i giornalisti
che criticano il partito al potere, Bharatiya Janata Party (BJP), ricevono
caterve di minacce sui social media dai nazionalisti indù. Se sono di
sesso femminile, queste minacce possono includere lo stupro. I giornalisti
sono spesso screditati: vengono diffuse le immagini delle loro famiglie, invitando
la gente ad attaccarli. Barkha Dutt, una presentatrice televisiva, ha
presentato una denuncia contro i troll che le avevano inviato minacce di morte
e pubblicato il suo numero di telefono personale spacciandolo per quello di un
servizio di escort. Quattro sospetti sono stati arrestati a marzo.
A volte le peggiori
minacce contro i giornalisti indiani vengono anche messe in atto, dando così
una credibilità agghiacciante a tutte le altre. Gauri Lankesh, un
giornalista che spesso ha criticato il nazionalismo indù, è stato ucciso a
colpi di arma da fuoco fuori dalla sua casa nel 2017. I sostenitori del
BJP hanno festeggiato. L’uomo arrestato per avere premuto il
grilletto ha detto alla polizia che i suoi mandanti gli avevano detto che doveva
farlo per “salvare” la sua religione.
L’intimidazione però
non sempre funziona. Ivan Golunov, un giornalista russo, ha indagato sui
funzionari della città di Mosca che acquistano in nero dimore milionarie e
sugli agenti di sicurezza che entrano in affari con la mafia. Le sue
storie erano poco conosciute, pubblicate su un piccolo sito web chiamato
Meduza. Il 6 giugno la polizia si è impadronita di Golunov, lo ha legato
in un’auto, lo ha portato in un edificio governativo, lo ha picchiato e ha
affermato di avere trovato droga nel suo zaino. Il ministero dell’Interno
ha pubblicato nove foto di droga sostenendo che era stata trovata nel suo
appartamento, ma poi ne ha rimosse otto, ammettendo che erano state portate da
altrove e affermando che erano state pubblicate per errore.
I sostenitori di
Golunov erano convinti che quella delle droghe fosse solo una messa in
scena. Con sorpresa delle autorità, la storia si è diffusa rapidamente su
Facebook e Twitter: la Russia non ha nulla a che vedere con la capacità della
Cina di sopprimere i post indesiderati sui social media. Gruppi di manifestanti
sono scesi in strada per chiedere il rilascio di Golunov. I media
stranieri hanno ripreso la vicenda, che ha oscurato il vertice di Putin con Xi
Jinping, presidente cinese, in corso quella settimana. Un Cremlino
imbarazzato ha ordinato la liberazione di Golunov. Quando la sua nuova
indagine è stata pubblicata da Meduza, poche settimane dopo, è stata letta da
1,5 milioni di persone, enormemente di più del suo pubblico abituale.
Ultime
notizie
Mentre le entrate
pubblicitarie che servono a sostenere il giornalismo indipendente diminuiscono,
molti governi hanno trovato più facile distorcere le notizie con i sudati soldi
dei contribuenti. Il metodo più semplice è di pomparli nei media statali,
che supportano ossequiosamente i partiti al potere. La maggior parte dei
regimi autoritari lo fa. Cina e Russia vanno oltre, sponsorizzando i media
globali che cercano di minare la democrazia ovunque. Tuttavia, il problema
dei media statali, dal punto di vista di un autocrate, è che tendono ad essere
noiosi.
Quindi un altro metodo
è quello di utilizzare la pubblicità del governo per premiare la sottomissione
e punire l’indipendenza. In molti paesi il governo è di gran lunga il più
grande inserzionista, quindi i giornali e le stazioni televisive hanno il
terrore di infastidirlo.
Un metodo più sottile è
quello di intessere rapporti con imprenditori che dipendono dallo stato per
concessioni o contratti, e spingerli ad acquistare media. A differenza dei
normali imprenditori, questi non hanno bisogno delle loro società di media per
realizzare profitti. I favori che le loro imprese di costruzione ricevono
superano di gran lunga le perdite che subiscono gestendo emittenti televisive
allineate. Di fatto, riescono spesso a danneggiare i loro rivali dei
media indipendenti, esacerbando i disagi finanziari causati dal declino della
pubblicità, da controlli fiscali aggressivi, da multe irragionevoli e via
dicendo. Media indipendenti a corto di soldi sono ovviamente più economici da
comprare e addomesticare per la cricca governativa.
Numerosi partiti al
potere usano queste tattiche. L’India ne usa la maggior parte, così come
la Russia e la Turchia. Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu,
è accusato di avere promesso una regolamentazione favorevole a una società di
telecomunicazioni, in cambio di una posizione favorevole su un sito web di
proprietà della stessa società. A gennaio, il quotidiano più popolare del
Nicaragua ha pubblicato una prima pagina bianca, per denunciare che le sue
forniture importate di inchiostro, carta e altri materiali erano state
misteriosamente sequestrate alla dogana, dopo che aveva pubblicato rapporti
critici sul partito sandinista al potere.
Loschi traffici di
questo tipo si sono insinuati perfino in aree considerate democratiche
dell’Europa. Il partito al potere ungherese, Fidesz, ha usato denaro
pubblico per dominare l’opinione pubblica. L’agenzia di stampa statale è
stata riempita di leccapiedi e offre i suoi bollettini gratuitamente ai mezzi
di informazione senza soldi. “Ricevi una notizia flash su [una nuova
stazione radio rock indipendente], ma [è] totalmente propaganda governativa…
perché è gratuita”, si lamenta un giornalista locale.
Il budget pubblicitario
del governo ungherese è aumentato enormemente dal 2010, quando il primo
ministro Viktor Orban ha preso il potere. La sua cricca ha acquistato
emittenti e siti web precedentemente aggressivi. “È un processo
inarrestabile“, afferma un giornalista indipendente. “Gli ungheresi
sono abituati all’idea che le notizie online siano gratuite. Quindi [le
aziende dei media] devono fare affidamento sul denaro dei loro
proprietari. E molti degli imprenditori nella vita pubblica sono
legati al governo.” L’anno scorso i proprietari di 476 società di media,
compresi praticamente tutti i giornali locali in Ungheria, li hanno ceduti
gratuitamente a una nuova megafondazione gestita da un amico di
Orban. Privi di fondi, i giornalisti seri hanno difficoltà a fare il
proprio lavoro. “È praticamente impossibile indagare anche sulle
principali storie di corruzione, perché ce ne sono così tante“, afferma
Agnes Urban di Mertek, organizzazione che vigila sui media.
Nel frattempo nelle
democrazie mature il sostegno alla libertà di parola sta diminuendo,
specialmente tra i giovani, mentre cresce l’aperta ostilità nei suoi
confronti. In nessun luogo questo è più sorprendente che nelle università
degli Stati Uniti. In un sondaggio Gallup pubblicato lo scorso anno, il
61% degli studenti americani ha affermato che il clima del campus impedisce
alle persone di esprimere ciò in cui credono, rispetto al 54% dell’anno
precedente. Altri dati tratti dallo stesso sondaggio potrebbero spiegare
il perché. Un notevole 37% ha dichiarato che è “accettabile” zittire gli
oratori con cui non si è d’accordo per impedire che siano ascoltati, e un
incredibile 10% ha approvato che siano fatti tacere con l’uso della violenza.
Molti studenti lo
giustificano sostenendo che alcuni oratori sono razzisti, omofobi od ostili ad
altri gruppi svantaggiati. Questo a volte è vero. Ma gli oggetti
dell’indignazione espressa nelle università sono stati spesso studiosi seri e
stimati. Heather Mac Donald, ad esempio, che sostiene che le proteste di
“Black Lives Matter” hanno spinto la polizia a ritirarsi dai quartieri ad alto
tasso di crimine e che ciò ha fatto impennare il tasso di omicidi, ha dovuto
essere portata fuori dal Claremont McKenna College, in California, in
un’auto della polizia. Manifestanti furiosi sostenevano che lasciarla
parlare era un atto di “violenza” che negava “il diritto all’esistenza dei
neri”.
Simili contorsioni
verbali sono diventate comuni a sinistra. Molti radicali sostengono che le
parole sono “violenza” se denigrano gruppi svantaggiati. Alcuni aggiungono
che chiunque conceda un pulpito agli oratori offensivi non condanna le loro
idee malvagie. Inoltre, dato che l’America si è polarizzata politicamente,
molti hanno iniziato a dividere il mondo in modo semplicistico tra le persone
“buone” (quelli che sono d’accordo con loro) e le persone “cattive” (quelli che
non lo sono). Ciò ha portato a strani contrasti. Al Reed College di
Portland, nell’Oregon, Lucia Martinez Valdivia, docente di razza mista, gay e
con disturbo post traumatico da stress, è stata accusata di essere “anti-nera”
perché si era lamentata degli studenti aggressivi che le stavano accanto
impedendole, a forza di urlare, di tenere una lezione sulla poesia lesbica
greca antica (a cui i disturbatori obiettavano perché la poetessa Saffo oggi
sarebbe considerata bianca).
Come sostengono Greg
Lukianoff e Jonathan Haidt in “The coddling of the American mind” (Viziare la
mentalità americana, ndt)
“Se alcuni studenti ora
pensano che sia giusto prendere a pugni un fascista o un suprematista bianco, e
se chiunque non sia d’accordo con loro può essere etichettato come un fascista
o un suprematista bianco, beh, è chiaro come questa mossa retorica potrebbe
rendere le persone riluttanti a esprimere opinioni dissenzienti
all’università.”
L’abitudine di cercare
di mettere a tacere le opinioni opposte, invece di combatterle, si è diffusa
anche fuori dalle università. A Portland, in Oregon, questo fine
settimana, estremisti di destra stanno pianificando di radunarsi, ci si aspetta
che i loro avversari “antifa” (antifascisti) tenteranno di impedirlo, ed
entrambe le parti sono impazienti di venire alle mani. Quando gli stessi
gruppi si sono scontrati a giugno, un giornalista conservatore, Andy Ngo, è
stato percosso così violentemente che è stato ricoverato in ospedale con
un’emorragia cerebrale.
Una intolleranza simile
si è diffusa anche in Europa. I manifestanti francesi dei “gilet gialli”
hanno picchiato diverse volte le troupe televisive (e molto più spesso
sono stati picchiati violentemente dalla polizia, ndt). In Gran
Bretagna qualsiasi discussione sulle questioni riguardanti i transgender è esplosiva. A
settembre, ad esempio, il Consiglio comunale di Leeds ha vietato a Woman’s
Place Uk, un gruppo femminista, di tenere un incontro perché gli attivisti
le avevano accusate di “transfobia”. (Le femministe non pensano che il
semplice dichiarare “Io sono una donna” debba consentire a maschi biologici il
diritto di entrare negli spazi riservati alle donne, come spogliatoi e rifugi
antistupro.)
“È quasi impossibile
avere un dibattito libero [su questo argomento]. Non ho mai visto niente
del genere“, afferma Ruth Serwotka, co-fondatrice di Woman’s
Place Uk. Oggi, il gruppo comunica ai membri dove le riunioni avranno
luogo con soltanto un paio d’ore di anticipo, per evitare interruzioni. Le
femministe che mettono in discussione l'”autoidentificazione di genere” (l’idea
che se dichiari di essere una donna, dovresti essere automaticamente trattata
come una donna a termini di legge) sono sistematicamente minacciate di stupro o
morte. Alcune hanno affrontato campagne organizzate per farle licenziare
dai loro posti di lavoro, bannare da Twitter o arrestare. A marzo, ad
esempio, Caroline Farrow, una giornalista cattolica, è stata interrogata dalla
polizia britannica dopo che qualcuno si era lamentato del fatto che avesse
usato il pronome sbagliato per descrivere una ragazza
transgender. Un’altra femminista, la sessantenne Maria MacLachlan, è stata
picchiata da un’attivista transgender allo Speakers’ Corner di Londra, dove la
libertà di parola dovrebbe essere sacrosanta.
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Link
originale: http://vocidallestero.it/2019/09/03/si-stringe-il-bavaglio-globale-sullinformazione/
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