Covid-19 e Costituzione
UniCost, 10 Aprile 2020, di Gaetano Silvestri
SOMMARIO: 1. Le garanzie costituzionali non possono essere “sospese”. 2. Il ricorrente disprezzo per la democrazia parlamentare. 3. L’alterazione progressiva del sistema delle fonti. 4. Possibile sveltimento del procedimento di conversione dei decreti legge. 5. Emergenza e sistema delle autonomie.
1 Le garanzie costituzionali non possono essere “sospese”
L’epidemia da Covid-19 ha prodotto in Italia una emergenza “vera”, che ha riattualizzato il problema – che si era posto anche negli anni del terrorismo fascista e brigatista – della compatibilità di misure eccezionali, a tutela della collettività, con i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione repubblicana, con la forma di governo parlamentare basata sulla separazione dei poteri e con il sistema costituzionale delle autonomie. Troppo spesso politici, giornalisti e tuttologi di vario genere hanno abusato del termine “emergenza”, al solo scopo di dare enfasi retorica ai propri discorsi, per ritrovarsi poi puntualmente impreparati quando si verificano autentici stati di necessità, che reclamano risposte rapide ed efficaci dalle istituzioni. Di qui una ridda di atti normativi e amministrativi, di annunci mediatici e di commenti “a caldo”, che quasi sempre aumentano la confusione, ingenerando equivoci difficili da superare perché ormai entrati nel senso comune.
Sul piano del diritto costituzionale, un primo equivoco, di carattere generale, è prodotto dall’affermazione che una situazione di emergenza richieda la sospensione, ancorché temporanea, delle garanzie, personali e istituzionali, previste dalla Costituzione. Tenterò di dimostrare che non si deve sospendere nulla, ma che invece sarebbe sufficiente, per fronteggiare lo stato di necessità, applicare quanto è scritto nella Carta costituzionale, senza vagheggiare revisioni e tirare in ballo la sempre fascinosa teoria di Carl Schmitt sulla sovranità che spetta a chi comanda nello stato di eccezione.
È vero che la Costituzione italiana non contiene una norma specifica sullo stato di necessità, come alcune altre Carte europee, ma si tratta di una omissione voluta, perché non era ancora svanito il ricordo, nella mente dei Costituenti, dell’art. 48 della Costituzione di Weimar, che contribuì notevolmente ad aprire la strada all’affermazione del regime nazista. Alla contrazione autocratica del potere, nell’ipotesi di emergenza, si è preferita la puntuale previsione di specifici modi di applicazione di princìpi e regole costituzionali, quando alcuni beni collettivi (salute, sicurezza, pacifica convivenza) fossero gravemente minacciati. Del resto, come potrebbe la Costituzione, che trova la sua legittimazione nella tutela dei diritti fondamentali prevedere essa stessa il loro accantonamento, anche se temporaneo?
Persino in vista della situazione eccezionale per antonomasia, la guerra, l’art. 78 Cost. non mette da parte la democrazia parlamentare, giacché lo stato di guerra può essere dichiarato solo dal Parlamento e prevede che quest’ultimo possa delegare al Governo i «poteri necessari», non i pieni poteri, richiamando così il principio di proporzionalità, che vale non soltanto per la restrizione dei diritti fondamentali, ma anche per le alterazioni del normale equilibrio costituzionale.
Dall’ultima disposizione costituzionale citata si può già dedurre il criterio generale di valutazione dell’appropriatezza degli interventi istituzionali nelle situazioni di emergenza, qualunque sia la loro causa. Poiché ogni diritto, dovere o potere, pubblico e privato, si inserisce in un contesto di rapporti giuridicamente regolati e condizionati dalle diverse situazioni di fatto, la loro consistenza e la loro portata si definisce, volta per volta, dall’interazione tra la posizione singola, personale o istituzionale, ed il contesto medesimo, che varia a seconda delle circostanze, sempre nell’ambito di schemi normativi pre-disposti direttamente dalla Costituzione o dalla stessa specificamente previsti nelle loro linee generali.
Lo stato di eccezione schmittiano – di questi tempi spesso evocato – presuppone invece uno spazio vuoto, deregolato e riempito dalla volontà del sovrano, inteso come potere pubblico liberato da ogni vincolo giuridico e capace di trasformare istantaneamente la propria forza in diritto. Tutto ciò non è ipotizzabile nell’Italia repubblicana e democratica, mentre sarebbe ben possibile sul piano dell’effettività storica se, anche sulla base di equivoci non chiariti, si accedesse all’idea di un salto extra-sistematico verso un ordinamento giuridico-costituzionale opposto a quello vigente e paradossalmente introdotto da quest’ultimo. Sembra che molti non si avvedano di evocare scenari di questo tipo. Peggio ancora nell’ipotesi che se ne avvedano.
Sarebbe quindi coerente e prudente non parlare più di “sospensione” delle garanzie costituzionali.
2 Il ricorrente disprezzo per la democrazia parlamentare
Colto alla sprovvista da un dramma epocale inizialmente sottovalutato, il Governo italiano – come, anche se in forme diverse, tutti gli altri governi del mondo, a cominciare dal celebrato Governo cinese – ha dato vita ad una serie impressionante di atti normativi, primari e secondari, che si sono accavallati, sovrapposti e contraddetti, con scarso o nessun rispetto per quella noiosa ed ingombrante costruzione che i giuristi chiamano “sistema delle fonti”. Non si percepisce con sufficiente nettezza che il rispetto dell’ordine costituzionale delle fonti non è concessione ad una mania classificatoria di specialisti autoreferenziali, ma la carne viva della democrazia “reale”.
Troppo spesso in Italia la democrazia parlamentare è stata ritenuta, a seconda dei casi, antiquata, meramente formale, strumento dei partiti e della “casta” che li dirige. I seggi delle Camere sono sempre più spesso denominati spregiativamente “poltrone”. Che male c’è quindi a sottrarre potere decisionale e di controllo ad un gruppo di parassitari membri della “casta”, comodamente assisi nelle loro poltrone e attenti soltanto alle loro prebende e ai loro privilegi? Ritorna periodicamente la polemica antiparlamentare, che nel XX secolo accompagnò l’eclissi della democrazia in tutta Europa. Cesarismo e bonapartismo – sorvolo in questa sede su sottili distinzioni teoriche tra i due termini – furono ritenuti, a destra come a sinistra, strumenti di accelerazione del cambiamento politico e sociale, in contrapposizione all’equilibrio costituzionale del vecchio Montesquieu, considerato invece fattore di immobilismo e di conservazione. I partiti politici furono annientati dai loro stessi capi (Mussolini, Hitler, Stalin) e trasformati in apparati di propaganda al loro servizio. La democrazia parlamentare, disprezzata e derisa, ha dovuto cedere il passo alla democrazia dell’acclamazione, del consenso plebiscitario verso il leader, a volte truce a volte paternamente benevolo, le cui decisioni sono rapide, efficaci e immuni dalle lotte tra le aborrite fazioni politiche.
Quale migliore occasione di una grande epidemia (pandemia) che miete migliaia di vittime e richiede misure immediate e coerenti nell’interesse dell’intera collettività, per riportare in auge questo ciarpame storico?
Il Parlamento è troppo lento e rissoso per essere in grado di sfornare atti normativi con la tempestività imposta dalle drammatiche circostanze determinate dall’espandersi del contagio. Ci pensa il Governo; anzi, siccome lo stesso Governo è lento e litigioso al suo interno, ci pensa il Presidente del Consiglio dei ministri. Assieme alla rappresentanza parlamentare viene “sospesa” anche la collegialità del Governo, entrambe sostituite dalla comunicazione diretta tra vertice dell’Esecutivo e cittadini. All’approvazione o riprovazione delle Camere sui provvedimenti urgenti si sostituiscono i sondaggi, esangue e incontrollabile surrogato del voto democratico e costituzionalmente regolato.
Si potrebbe dire che, nel momento attuale, di fronte alla necessità di salvare la salute e la vita stessa delle persone, l’osservanza delle regole istituzionali slitta in secondo piano.
Sarebbe asserzione ineccepibile, se non fosse possibile ottenere gli stessi risultati senza “sospensioni”, in tutto o in parte, della Costituzione. Riaffiora la tendenza degli ultimi decenni a mettere sulle spalle della Carta le responsabilità di una politica impotente, perché perennemente affaccendata da baruffe di cortile e dall’ossessivo inseguimento di consenso emotivo ed immediato. Non c’è principio, non c’è riflessione ragionevole che non possa essere sacrificata ad un applauso in un teatro o in una piazza o a qualche like inserito sotto la suggestione di una battuta a effetto. Accade così che la Costituzione venga di fatto oscurata sotto la coltre di esaltazioni enfatiche, volte a dimostrare che il proprio programma politico discende da un principio costituzionale, oppure, al contrario, delegittimata dalle accuse continue di impedire quel benefico decisionismo, il cui deficit sarebbe alla radice di tutti i mali. Si diceva lo stesso nella Germania di Weimar. Sappiamo come è andata a finire.
3 L’alterazione progressiva del sistema delle fonti
Tra i tanti profili meritevoli di attenzione, mi soffermo brevemente su quello che mi sembra il punto capitale della problematica costituzionalistica della gestione dello stato di necessità: il rispetto del principio di legalità e della riserva di legge.
L’esordio delle misure di contenimento del contagio epidemico da Covid-19 è stato caratterizzato da un profluvio di dpcm contenenti discipline delle più varie materie e dei più disparati oggetti, norme attuative di disposizioni già vigenti e, insieme, norme anche fortemente innovative della legislazione esistente, non escluse limitazioni di diritti fondamentali, prescrizioni di nuovi doveri di comportamento, financo sanzioni penali. Tutto sotto l’ombrello (si potrebbe dire sotto … la foglia di fico) di una disposizione “in bianco” del d.l. n. 6/2020, meramente attributiva di potere, senza alcuna delimitazione di forma o di contenuto. Ciò che non sarebbe stato consentito in sede di delegazione legislativa si è pensato fosse ammissibile con un decreto legge a maglie larghe, anzi … larghissime! È vero che buona parte dei veri e propri “sfregi” costituzionali della prima fase dell’emergenza sono stati cancellati a posteriori da successivi atti con forza di legge, in special modo dal d.l. n.19/2020, ma è altrettanto vero che ciò è avvenuto in ritardo, dopo il levarsi di molte critiche, accompagnate inevitabilmente da proposte di revisione costituzionale volte ad eliminare gli “impacci” di un sistema costituzionale “bloccato”, perché asseritamente irto di pesi e contrappesi che impedirebbero le decisioni.
Ciò che in questo momento mi interessa sottolineare è la disinvoltura con cui si stava procedendo all’impiego indiscriminato di atti di varia natura (legislativa, regolamentare, amministrativa generale). Non c’è tanto da meravigliarsi, se si pensa che da molti decenni gli organi di produzione normativa in Italia hanno adottato, come proprio inno, rispetto alle fonti del diritto, l’aria del Duca di Mantova nel Rigoletto di Giuseppe Verdi: «Questa o quella per me pari sono», alla faccia di moralisti e parrucconi (i famosi “professoroni”), che tarpano le ali alla potente creatività dell’Esecutivo e dei “tecnici” (?) retrostanti (burocrati o “consiglieri” che siano).
Oggi più che mai è necessario riaffermare, senza tentennamenti, che qualunque limitazione di diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione o disciplina restrittiva della generale libertà dei comportamenti – anche sotto forma di istituzione o ampliamento di doveri – deve trovare il suo presupposto in una statuizione di rango legislativo – legge formale o atto con forza di legge – perché, in un modo o nell’altro, la limitazione stessa possa essere assoggettata al vaglio del Parlamento. L’assolutezza o relatività delle varie riserve di legge previste in Costituzione è rimessa alla valutazione degli organi costituzionali politici e di garanzia nei casi concreti. Resta fuori dal quadro costituzionale, in ogni caso, la rimozione in blocco del controllo parlamentare e, di conseguenza, del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale. Ne deriva che, nelle ipotesi di emergenza, lo strumento, non surrogabile, da utilizzare per interventi immediati, è il decreto legge (art. 77: «In casi straordinari di necessità e urgenza…»).
Come stupirsi, del resto, che questa elementare affermazione, che tutti gli studenti in giurisprudenza di primo anno ben conoscono, sia stata ignorata in questa occasione, se la stessa è stata pretermessa quanto meno nell’ultimo quarto di secolo, con l’abuso della decretazione d’urgenza, che ha preso il posto della legge formale delle Camere; era logico aspettarsi che, diventato il decreto legge una forma anomala, ma invalsa nella prassi, di legislazione corrente, quando si fosse presentata una vera situazione di necessità e urgenza, il procedimento ideato dai Costituenti per fronteggiare velocemente l’emergenza sia apparso “lento”, come “lento” era apparso il procedimento ordinario di formazione della legge di fronte all’abuso della parola “emergenza” per qualunque problematica economica o sociale si presentasse al vaglio della politica. Si è verificato un “effetto domino”: il decreto legge al posto della legge, l’atto amministrativo al posto del decreto legge.
Detto questo, non bisogna dimenticare che nelle presenti circostanze le restrizioni incidono inevitabilmente almeno sulle libertà personale (art. 13 Cost.), di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.), di riunione (art. 17 Cost.), di religione (art. 19 Cost.), di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), nonché sul diritto-dovere al lavoro (art. 4 Cost.) e sulla libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.). Se da questi caposaldi si passa alle conseguenze indirette delle restrizioni, quasi tutta la prima parte della Costituzione risulta incisa dalle norme di contenimento del contagio da Covid-19. Molto lavoro per il Parlamento? Al contrario purtroppo, poco lavoro.
4 Possibile sveltimento del procedimento di conversione dei decreti legge
Gli argomenti principali che sostengono, in questi drammatici momenti, l’accantonamento del Parlamento sono essenzialmente due.
Il primo è quello, sempre ricorrente, delle “pastoie” del procedimento parlamentare di conversione in legge, appesantito da eventuali atteggiamenti non collaborativi dell’opposizione.
Il secondo è quello della difficoltà di riunirsi delle Camere, a causa della necessità di osservare rigorosamente le precauzioni necessarie ad evitare la diffusione del contagio, anche all’interno delle sedi parlamentari,
Il primo argomento prova troppo. Atteggiamenti poco responsabili delle forze politiche, che, in momento come quello che stiamo attraversando, perdono tempo in schermaglie, tattiche ritardatrici, dispetti e imboscate o, al contrario, approfittano della situazione per dettare regole unilaterali, saltando il doveroso confronto tra maggioranza e opposizione, non sono imputabili alla Costituzione e alla separazione dei poteri, ma alla perdurante crisi del sistema politico, frammentato in partiti e movimenti incapaci di indirizzi responsabili, ma al continuo inseguimento degli spostamenti, anche minimi, di consenso elettorale, cui viene sacrificato il risultato pratico della legislazione in qualsiasi campo. Sarebbe aberrante che l’unico rimedio a queste deprecabili tendenze fosse l’irrigidimento autoritario dello Stato. Il pericolo tuttavia esiste, giacché – è inutile negarlo – è rimasta in vita in una parte della popolazione la cultura politica che accompagnò la nascita e l’affermazione del fascismo: disprezzo per il Parlamento ed i suoi “riti”, culto del capo. A poco varrebbe obiettare che spesso queste tendenze si manifestano in forme farsesche e quindi non temibili. Al contrario, l’incapacità di percepire il proprio stesso ridicolo è stata una componente dell’appoggio di massa alle dittature moderne.
Osservando quanto si è verificato nella prima fase della crisi da covid-19, si ha la conferma dell’assoluta necessità che la democrazia sia saldamente presidiata da organi di garanzia, quali il Presidente della Repubblica (così come è configurato dalla Costituzione italiana) e la Corte costituzionale. Non sorprende che la venatura autoritaria della cultura politica italiana favorisca continui attacchi contro di essi.
La seconda argomentazione, di carattere contingente, può trovare una risposta, che mostra refluenze anche sulla prima, di carattere generale.
Il quarto comma dell’art. 72 Cost. non include la conversione in legge dei decreti legge tra i casi in cui è obbligatorio il procedimento ordinario ed è, di conseguenza, escluso il procedimento decentrato in commissione. La necessità del procedimento ordinario emerge tuttavia dai Regolamenti della Camera e del Senato (art. 96-bis RC e art. 78 RS). Potrebbe essere utile, in circostanze veramente straordinarie come quella attuale, prevedere nei medesimi Regolamenti l’ipotesi di una deliberazione all’unanimità della Conferenza dei capigruppo, che autorizzi la scelta del procedimento decentrato, le cui modalità non solo renderebbero più agili e veloci i lavori, ma consentirebbero pure l’adozione di tutte le cautele (numero dei presenti, distanze, scelta dei locali più adatti etc.) necessarie per l’incolumità dei partecipanti ed il contenimento del contagio. Maggioranza e opposizione sarebbero comunque garantite, giacché sarebbe sempre possibile la transizione al procedimento ordinario, su richiesta del Governo, di un quinto dei membri della commissione competente e di un decimo dell’assemblea.
Una facile obiezione a questa proposta potrebbe essere la scarsa coesione sui valori delle nostre forze politiche, che potrebbe vanificare – con la mancata unanimità iniziale e con l’uso spregiudicato della facoltà di trasformazione del procedimento legislativo – gli obiettivi perseguiti (rapidità e ruolo centrale del Parlamento). Sono consapevole di questa difficoltà. Rispondo però che si tratta di un problema politico, da non celare dietro la comoda scusa dell’impedimento costituzionale. Una volta predisposti gli strumenti adatti, ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità.
Una soluzione come quella prospettata mi sembrerebbe preferibile al “televoto” dei parlamentari, non tanto per una interpretazione letterale delle parole «presente» o «presenti» contenute nell’art. 64 Cost., quanto piuttosto perché appare problematico poter garantire nella votazione da remoto la sussistenza delle condizioni della sua genuinità ai sensi dell’art. 48 Cost.; il che vale per tutte le forme di “democrazia digitale”, che prescindono dalle condizioni ambientali in cui si trova chi esprime la sua volontà democratica. A costo di apparire troppo sospettoso e tradizionalista démodé, mi sento più tranquillo se elettori e rappresentanti esprimono il loro voto nelle cabine poste nei seggi elettorali e su schede di Stato (elettori) o nelle sedi parlamentari, con le tecniche allo scopo predisposte e lontani da possibili interferenze e pressioni (rappresentanti). L’entusiasmo per la tecnologia non dovrebbe far diminuire l’entusiasmo per la libertà. E se, financo con le garanzie di cui sopra, si sono verificate, dentro e fuori le Camere, violazioni scandalose dell’art. 48 Cost., possiamo figurarci cosa potrebbe accadere se il voto fosse espresso in luoghi privati, alla presenza eventuale di terzi estranei o con modalità – volute o non – tali da non garantirne la segretezza, quando richiesta.
5 Emergenza e sistema delle autonomie
Una rapida osservazione sull’incidenza della situazione emergenziale sul sistema delle autonomie.
Non credo vi sia necessità di reintrodurre il limite dell’interesse generale alla potestà normativa delle Regioni, nei termini in cui esisteva nella Costituzione prima della riforma del Titolo V della Parte II introdotta nel 2001.
Esistono due possibilità, entrambe trascurate, o quasi, per rendere più coerenti e veloci i rapporti tra Stati e Regioni, specie in tempi come quelli che stiamo vivendo. Il primo è quello classico della legge-quadro. Sarebbe necessario ed opportuno che lo Stato emanasse – ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. – una legge contenente i principi generali di una materia (la tutela della salute), in cui fossero contenute norme precise sul modus operandi delle autorità statali, regionali e locali in caso di epidemie e altre emergenze sanitarie. Il caos attuale è, in buona parte, frutto dell’assenza di una tale legislazione di inquadramento sistematico, che non si è pensato di predisporre in tempi normali. Le norme contenute nella legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, appaiono lacunose e insufficienti, specie sul punto cruciale degli ambiti reciproci delle competenze dello Stato e delle Regioni. È sufficiente compiere una lettura sistematica degli artt. 7, 11 e 32 della legge ora citata, per rendersi conto che rimangono margini di incertezza e ambiguità non tollerabili in situazioni di emergenza, come quella attuale, in cui di tutto c’è bisogno tranne che di conflitti istituzionali, che aumentano lo smarrimento e la confusione.
La carenza di criteri pre-definiti, lascia largo spazio ad una disordinata corsa a riempire veri o presunti vuoti di disciplina o a dar luogo a normative anche fortemente differenziate non solo per obiettive necessità di adeguamento a situazioni locali, ma anche per pura polemica politica con il Governo nazionale o per smania individualistica di visibilità, in vista del possibile, successivo sfruttamento elettorale. Forse è l’aspetto più triste e squallido delle attuali difficoltà di coordinamento tra autorità nazionali, regionali e locali. Si spera che le attuali difficoltà possano essere di monito a non dimenticare il problema una volta ritornata (come si spera!) la normalità.
Il secondo strumento è previsto nell’art. 120 Cost., che consente al Governo di sostituirsi alle Regioni ed agli enti locali in una serie di casi, tra i quali rientra certamente l’emergenza che stiamo attraversando. Ciò non significa che non si debbano attivare tutte le potenzialità del regionalismo cooperativo, ma soltanto che il Governo nazionale, esperiti tutti i tentativi di accordo, in uno spazio temporale compatibile con la gravità della situazione, possa assumere la responsabilità della decisione unitaria, quando ciò sia indispensabile per la salvaguardia degli interessi supremi indicati nella medesima norma costituzionale. Non esiste alcuna oggettiva necessità di nuove disposizioni costituzionali per introdurre clausole di supremazia e di interesse nazionale. Basterebbe applicare le norme che già esistono Naturalmente sarebbe necessaria un’altra condizione, non scritta: il coraggio di farlo.
In ogni caso, nessuna legge autorizzativa potrà mai consentire ad una Regione (a fortiori ad un ente locale) di emanare norme che impediscano o ostacolino la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, in palese dispregio del primo comma del citato art. 120 della Cost., come purtroppo in qualche caso si sta verificando. Un blocco di transito da una Regione ad un’altra ha una rilevanza nazionale per diretto dettato costituzionale. Sempre e comunque è necessario un provvedimento statale. La Repubblica «una e indivisibile» (art. 5 Cost.) non può tollerare che parti del territorio e della popolazione nazionali si pongano in contrapposizione tra loro. Vi osta, oltre che il principio di unità nazionale, anche il principio di solidarietà (art. 2 Cost.), inconciliabile con qualunque chiusura egoistica o particolaristica. Chiudere si può e si deve, se la situazione concreta lo impone, ma solo se si valuta l’impatto nazionale di provvedimenti così incisivi su princìpi supremi (unità e solidarietà), dai quali dipende l’esistenza stessa della Repubblica democratica.
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