“Il
coraggio di ciò che si sa”
Pubblichiamo un eccellente testo di Vladimiro Giacchè nel
quale è ricostruita la vicenda storica dell’Italia nell’euro, il passaggio di
fase in corso, l’interpretazione del Governo Conte 2 e la sua valutazione
critica sulla scelta di Patria e Costituzione di provare a giocare la partita
nella maggioranza M5S-Pd-Renzi-LeU. Buona lettura.
Vladimiro Giacché
“Il coraggio di ciò che si sa”.
Il secondo governo Conte e la sinistra [1]
Friedrich Nietzsche diceva che bisogna avere “il coraggio
di ciò che si sa”.[2]
1. Quello che sappiamo
Proviamo a mettere assieme quello che sappiamo sulla
traiettoria economica dell’Italia negli ultimi decenni, su quanto è accaduto
dall’introduzione dell’euro, prima e dopo la crisi e su quanto è accaduto dopo
il 4 marzo 2018. Ci aiuterà a capire cosa fare.
1.1. La traiettoria economica dell’Italia negli ultimi
decenni è la storia di un successo catastrofico
A differenza di quanto vuole una vulgata diffusa
quanto falsa, questo paese negli scorsi decenni ha fatto diligentemente i
compiti che gli sono stati assegnati. Ha eliminato la scala mobile (1993), ha
eliminato l’economia mista (accordo Andreatta-Van Miert e poi privatizzazioni
di Draghi), ha ridotto il debito dal 117% del 1994 al 100% del 2007.
Usando la crisi come spartiacque, possiamo distinguere
due periodi, con l’aiuto di un recente paper dell’economista olandese Servaas
Storm[3].
Dal 1995 al 2008 abbiamo realizzato un avanzo primario
del 3% annuo (principalmente riducendo le spese sociali): nessuno è stato
così bravo in Eurozona (la virtuosa Germania nello stesso periodo può vantare
un avanzo di appena lo 0,7%, mentre la Francia evidenzia un disavanzo dello
0,1%). Questo sforzo in teoria sarebbe stato sufficiente per ridurre il debito
dal 117% del 1994 a uno strabiliante 77% del 2008. Purtroppo però questo contenimento
della spesa pubblica ha ridotto la crescita e questo ha all’incirca dimezzato
la riduzione effettiva (in quanto il rapporto debito/pil è stato mantenuto più
elevato dalla conseguente minore entità del prodotto interno lordo).
Dal 2008 al 2018, poi, l’Italia è stata protagonista di
un consolidamento fiscale eccezionale. Lo possiamo vedere in questo grafico,
tratto dalla ricerca di Storm.[4]
Il consolidamento (restrizione) fiscale italiano ammonta
a ben -227 miliardi di euro, a fronte di politiche espansive del valore di +461
miliardi da parte della Francia e di un dato complessivamente neutro per i
paesi “Euro-4” (Belgio, Francia, Germania e Olanda). Secondo stime dello stesso
Tesoro italiano, questo consolidamento, nei soli anni tra il 2012 e 2015, ha
ridotto il prodotto interno lordo del 5% e gli investimenti del 10%.
Tirando le somme, i surplus primari realizzati
dall’Italia tra il 1992 e il 2018 hanno sottratto domanda per 1 trilione di
euro cumulato. Nel periodo la spesa pubblica non ha conosciuto alcun aumento,
mentre gli investimenti sono diminuiti in ragione dello 0,5% annuo. Il
disavanzo primario pubblico francese nel periodo ammonta a 475 miliardi, mentre
il consolidamento realizzato complessivamente da Germania, Belgio e Olanda
ammonta a circa la metà (-510 miliardi) di quello della sola Italia.
Ma siamo stati bravi anche su altri fronti. Ad esempio,
abbiamo flessibilizzato il lavoro e contenuto più degli altri i salari (con
l’eccezione della sola Germania nel periodo 2005-2010).[5]
I salari sono aumentati di appena il 6% dal 1992 al 2018.
Abbiamo così ridotto l’inflazione, aumentato la quota del prodotto interno
lordo che va ai profitti, aumentato l’intensità di lavoro, e anche ridotto la
disoccupazione sino allo scoppio della crisi, come si vede nel grafico che segue.[6]
Ma al tempo stesso abbiamo ridotto la produttività del
lavoro, ridotto l’incentivo a investimenti produttivi e ridotto la domanda aggregata;
questo sia a causa sia del calo della quota salari, sia a causa delle misure di
austerità.[7]
La crescita cumulata della domanda interna nell’intero
periodo tra 1992 e 2018 è risultata inferiore al 7%. Nello stesso periodo essa
è cresciuta del 33% in Francia e del 29% in Germania. In tal modo è stato
colpito anche il saggio di profitto, che come determinante di nuovi
investimenti è più importante della quota parte dei profitti sul pil.
Infine, il dato forse più significativo, che riguarda il
calo dei redditi nel periodo considerato. Se nel 1991 il reddito netto medio in
Italia era pari a 27.499 euro (a prezzi costanti del 2010), nel 2016 era sceso
a 23.277 euro: un 15% in meno.
La conclusione di Storm in relazione alla deludente
crescita italiana del periodo è questa: “about 60% of the deterioration
in Italy’s growth performance can … be directly attributed to Italy s
self-imposed commitment to the EMU norms”.[8] Ma è più in generale l’Eurozona nel suo complesso
ad essere l’area a minor crescita del mondo.
Per questi trent’anni perduti, connotati da deflazione
salariale, distruzione dell’economia mista, taglio ai servizi sociali, crescita
economica stentata e quindi anche aumento del debito, gli indiziati sono
parecchi.
La borghesia italiana, renitente a investire (anche
quando, come nel 1992/3, l’aumento degli investimenti era stato pattuito quale
contropartita dell’abolizione della scala mobile), ma assai rapida nel salire
sulla scialuppa delle privatizzazioni: “il capitalismo delle bollette”, come è
stato definito.[9]
L’ideologia (e la prassi) del vincolo esterno: fatta
propria da un’intera classe dirigente (politica, tecnocratica ed economica) che
all’inizio degli anni Ottanta decide di risolvere i problemi sociali “legandosi
le mani” e facendo fare a qualcun altro il lavoro sporco.
In particolare, ai mercati internazionali dei capitali,
alle cui amorevoli cure, con il divorzio Tesoro-Banca d’Italia del 1981,
avvenuto – non lo si ricorderà mai abbastanza – senza alcun passaggio
parlamentare e con un semplice scambio di lettere tra le parti, è affidato il
debito pubblico italiano: con il risultato di vederlo raddoppiato in 10 anni.
Poi, per risolvere il problema che avevamo con i mercati
finanziari internazionali, abbiamo pensato bene di rivolgerci alla Germania.
L’ingresso nell’euro è stato in effetti visto come un traguardo precisamente al
fine di ricevere protezione, all’ombra della “credibilità” tedesca,
dai mercati internazionali, a seguito della crisi del 1992. Crisi che, a ben
vedere, ci aveva dato due lezioni: gli effetti devastanti
della speculazione su un paese che aveva scelto – attraverso l’indipendenza
della Banca Centrale dal Tesoro – di non monetizzare più il debito, ma anche
l’insostenibilità per l’Italia di un sistema a cambi semi-fissi quale lo SME.
Si impara soltanto la prima lezione e, volendo mantenere
a tutti i costi l’indipendenza della Banca Centrale realizzata nel 1981, si
decide di imboccare la strada che porta a un sistema di cambi
(irrevocabilmente) fissi.
Qui entra in gioco un altro protagonista: l’ideologia
europeista, condivisa a questo punto non soltanto più dall’establishment
tradizionale, ma anche dall’intera sinistra italiana postcomunista: l’Europa è
considerata più in generale come una frontiera di civiltà, come uno strumento
di modernizzazione del nostro paese (che per la verità era già, pur tra
contraddizioni anche gravi, uno dei paesi più moderni del mondo).
1.2. I vantaggi e gli svantaggi della moneta unica
I vantaggi della moneta unica sono rappresentati dalla
fine del rischio di cambio e dalla convergenza dei tassi d’interesse verso
quelli tedeschi. La prima ha consentito un incremento ha ridotto i costi di
transazione e favorito gli scambi interni all’area monetaria, la seconda ha
consentito di ridurre gli interessi sul debito.
Gli svantaggi sono rappresentati … dalla fine del rischio
di cambio e dalla convergenza dei tassi d’interesse verso quelli tedeschi. In
altri termini: quelle stesse conseguenze della creazione della moneta unica di
cui per lungo tempo la nostra pubblicistica ci ha decantato gli effetti
positivi hanno avuto effetti negativi non trascurabili.
In effetti la fine del rischio di cambio è
l’altra faccia della medaglia della perdita della sovranità monetaria e della
conseguente emissione del debito in una moneta straniera, per di più regolata
da una Banca Centrale indipendente che ha il divieto di acquistare titoli
del debito pubblico degli Stati e il cui unico obiettivo è la stabilità dei
prezzi (e non l’occupazione) – caratteristiche che pongono un problema di
compatibilità tra gli obiettivi che ispirano la nostra Costituzione e quelli
perseguibili nel contesto dei Trattati europei.[10] Inoltre il valore di questa moneta verso l'”estero”
(ossia verso i paesi che non fanno parte dell’eurozona) ovviamente sarà il
prodotto della media della forza economica dei paesi membri: con il risultato
che per il più competitivo la moneta unica sarà una moneta sottovalutata
(rispetto a quello che sarebbe stato il valore della sua singola moneta in
assenza dell’unione monetaria) mentre per i meno competitivi sarà sopravvalutata.
Infine, ed è questo l’aspetto essenziale, l’eliminazione di un meccanismo di
mercato di riaggiustamento dei differenziali di competitività quale quello
rappresentato dalla flessibilità del cambio – meccanismo che, ove presente,
impedisce si creino squilibri troppo marcati nella bilancia commerciale dei
paesi membri – accresce l’importanza di un altro fattore di competitività:
quello consistente nella “moderazione salariale”. In altri termini,
l’impossibilità di effettuare svalutazioni “esterne” costringe alla
svalutazione interna, ossia a ridurre e tenere bassi i salari, quale strumento
principe per il recupero della competitività.
Come noto, prima della crisi europea la Germania,
soprattutto a partire dal 2005 (entrata in vigore dell’Agenda 2010 di
Schröder), ha giocato con spregiudicatezza questa carta, come evidenziato tra
gli altri dall’economista tedesco Peter Bofinger nel 2015, il quale ha
evidenziato il ruolo giocato dalla politica mercantilistica tedesca imperniata
sulla “moderazione salariale” nella genesi della crisi dell’Eurozona (cfr.
grafico sottostante).[11]
Come si vede dal grafico che segue, tratto invece da un
testo di Francesco Saraceno, negli anni considerati, la performance della
Germania in termini di “moderazione salariale” spicca non soltanto nel confronto
europeo, ma più in generale tra i paesi Ocse.[12]
Quanto alla convergenza dei tassi di interesse
verso quelli tedeschi, il vero obiettivo inseguito dall’Italia entrando
nella moneta unica, essa ha come noto in effetti abbassato notevolmente i tassi
di interesse di molti Paesi dell’eurozona, tra cui il nostro, alleggerendo
notevolmente l’onere rappresentato dal servizio del debito (pubblico e non
solo).
Ma proprio questo ha, d’altra parte, aumentato la
propensione all’indebitamento nei paesi interessati. Si è così verificato il
fenomeno descritto nel ciclo di Frenkel, per cui questi paesi alimentano
squilibri di bilancia commerciale, che sono però mascherati dalla creazione di
debito, finanziato da altri paesi dell’area monetaria la cui bilancia
commerciale è per contro in attivo.
Questo ci porta direttamente alla crisi. Che non è stata
una crisi di debito pubblico, ma una crisi nata da squilibri delle bilance
commerciali. La circostanza è stata ammessa sin dal 2013 dalla stessa Bce, come
si vede dal grafico sottostante, tratto da una conferenza del suo
vicepresidente Vitor Constancio, tenuta ad Atene nel maggio 2013;[13] esso evidenzia che la variazione significativa nel
debito dei Paesi periferici dell’Eurozona negli anni precedenti la crisi
riguarda l’accumulo di debito privato e non di debito pubblico (soltanto in
Grecia e Portogallo aumenta il debito pubblico, comunque in misura inferiore
all’accumulo di debito privato).
1.3. Gli aspetti critici dell’adesione dell’Italia alla
moneta unica alla luce della crisi dell’area dell’euro
La crisi, tra i molti evidenti lati negativi, ha un
aspetto indubbiamente positivo: essa ha messo in luce alcuni aspetti gravemente
disfunzionali dell’architettura dell’Eurozona. La crisi è in un primo periodo
importata in Europa dagli Stati Uniti e assume la forma di crisi da calo del
commercio estero, e conseguentemente colpisce in particolare due paesi
esportatori quali la Germania e l’Italia; sotto il profilo finanziario sono
invece investite dalla crisi in particolare le banche di Francia e Germania.
Questo determina un sudden stop nei flussi di capitale dai
paesi centrali dell’Eurozona (i cosiddetti “paesi core”) a quelli
periferici.
A fine 2009 inizio 2010 inizia la crisi della Grecia e la
cosiddetta “crisi del debito sovrano”. La Bce, in coerenza con quanto previsto
dal Trattato di Maastricht, si rifiuta di intervenire (peggiorando
drasticamente una crisi che sarebbe stata facilmente gestibile con un costo
finanziario limitato), i rendimenti dei titoli di Stato greci vanno alle
stelle, e si produce un effetto domino: tutti i paesi considerabili a rischio –
per motivi diversi – vengono prima o poi investiti dalla speculazione (sovente
trasfigurata in “severità disciplinatrice dei mercati”), in quanto la Bce dà ai
mercati il messaggio che non interverrà a loro difesa.
Il risultato per quanto riguarda l’Italia, in termini di
differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato italiani a 10 anni e dei
loro omologhi tedeschi, è raffigurato nel grafico seguente.
È stato posto in luce come l’appartenenza stessa alla
moneta unica abbia comportato per i paesi membri una minore flessibilità di
risposta alla crisi rispetto a paesi che non ne fanno parte (De Grauwe, per
esempio, ha confrontato le diverse performance post-crisi di Spagna e Regno
Unito):[14] in effetti, è evidente che nessun paese membro
dell’Eurozona può effettuare una politica monetaria indipendente, abbassare i
tassi in maniera perfettamente appropriata alle condizioni della propria
economia, né svalutare.
Ma c’è di più. La gestione della crisi è stata connotata
da 3 gravissimi errori:
1) il rifiuto di considerare la realtà dei meccanismi alla
base della divergenza tra paesi;
2) l’interpretazione “morale” delle divergenze
nell’eurozona (i paesi in deficit sono sconsiderati, i paesi in avanzo sono
virtuosi);
3) la centralità attribuita al debito pubblico, anziché
agli squilibri della bilancia dei pagamenti.
Le conseguenze di questo approccio sono molto serie:
1) il primo errore impedisce di affrontare i nodi
strutturali del problema (arrivando sino a negare che gli avanzi eccessivi, pur
sanzionabili in base al Patto per la stabilità e la crescita del 1999, siano un
problema);
2) il secondo errore comporta il tentativo di realizzare
un riequilibrio tra le economie tutto a spese dei debitori (l’aggiustamento è
chiesto solo a loro, e non anche ai paesi creditori);
3) il terzo errore, infine, ha per conseguenza
l’imposizione ai paesi in crisi politiche pro-cicliche (di restrizione fiscale)
che peggiorano la situazione.
Il risultato possiamo osservarlo confrontando le ben
differenti performance di Italia e Germania in termini di crescita dopo
l’inizio della crisi.
Quanto alle politiche monetarie adottate al fine di
superare la crisi dalla BCE, esse sono state tardive e insufficienti.
Sono state tardive, e non per caso: il ritardo serviva a
imporre “la disciplina dei mercati finanziari”. Per quanto riguarda il caso
italiano, lo stesso Luigi Zingales ne ha parlato in termini molto duri: “It
was a form of economic waterboarding that has left the
Italian economy devastated and Italian voters legitimately angry at
the European institutions”.[15]
Esse sono state utili a impedire la fine dell’euro – e in
effetti sono state adottate non prima di quando tale prospettiva ha cominciato
a profilarsi seriamente all’orizzonte -, ma al tempo stesso sono state
insufficienti a risolvere la crisi. Questo per diversi motivi: perché la BCE
non è (non può essere ai sensi del Trattato di Maastricht) garante di ultima
istanza dei debiti sovrani e perché l’effetto delle politiche monetarie
espansive, convenzionali (diminuzione dei tassi d’interesse) e non
convenzionali (acquisto titoli e assets vari sui mercati finanziari) è stato
neutralizzato da politiche di bilancio restrittive (austerità e controllo dei
bilanci pubblici).
Ulteriori misure di integrazione, dichiaratamente nate
per combattere la crisi, hanno avuto effetti perversi soprattutto per l’Italia:
un caso emblematico è rappresentato al riguardo dalla cosiddetta “unione
bancaria europea”, assolutamente squilibrata e asimmetrica: un’unione nata per
eliminare la balcanizzazione finanziaria, ma venuta alla luce senza la sua
unica componente in grado di contrastarla. In estrema sintesi,[16] l’unione bancaria europea è caratterizzata:
1) Quanto al primo pilastro (vigilanza
unica), da una forte asimmetria in termini di percentuale di copertura dei
diversi sistemi bancari nazionali da parte della vigilanza europea; nel grafico
che segue è rappresentata la quota degli attivi bancari sotto diretta
supervisione Bce, dopo la creazione dei due gruppi del credito cooperativo.
2) quanto al secondo pilastro (meccanismo
di risoluzione unico: il bail-in), esso sconta l’asimmetria delle
condizioni di partenza (come si può vedere dal grafico sottostante, nel 2013,
quando si negozia l’unione bancaria, praticamente tutti i paesi dell’eurozona,
tranne il nostro, avevano effettuato massicci salvataggi pubblici [bailouts] delle
loro banche).
Nota: * incluse le garanzie.
Fonte: Commissione Europea, DG Concorrenza, Frankfurter
Allgemeine Zeitung, 16 agosto 2013.
A questo vanno aggiunti:
a) lo strabismo della vigilanza europea, che
ha considerato assolutamente prioritario il controllo del rischio di credito,
mentre ha trascurato il rischio di mercato, portatore di potenziale instabilità
ben maggiore in termini di rischio sistemico.
Nel grafico sotto si può vedere come gli aggiustamenti
richiesti a fronte dell’Asset Quality Review della Bce si siano concentrati
soprattutto sulle attività creditizie.
Questo grafico evidenzia invece l’entità dei derivati
detenuti in bilancio nel 2017 in percentuale del totale attivo, segnalando come
in particolare le banche di Francia e Germania siano portatrici di un rischio
di mercato molto elevato, in relazione al quale la vigilanza BCE ha manifestato
ben minore attenzione di quella esercitata sul rischio di credito;
b) decisioni sbagliate della Commissione Europea,
come quella di proibire, nel novembre 2015, l’intervento del Fondo
Interbancario di Tutela dei Depositi per salvare alcune piccole banche italiane
(considerandolo erroneamente un “aiuto di Stato”).
Il combinato disposto dell’asimmetria nelle condizioni di
partenza dei vari sistemi al momento dell’ingresso nell’unione bancaria europea
(vedi sopra punto 2)) e di queste decisioni hanno trasformato l’entrata in
vigore del bail-in, nel gennaio 2016, in un vero e proprio tsunami che in meno
di 3 mesi ha cancellato il 35% della capitalizzazione di borsa delle banche
italiane.
3) quanto al terzo pilastro, ossia la
garanzia (poi si è detto “assicurazione”) europea dei depositi, esso è
semplicemente assente, contrariamente a quanto originariamente previsto.
Senza l’assicurazione europea sui depositi, l’Unione
bancaria è un tavolino a due zampe, con quello che ne consegue in termini di
stabilità. Ma, soprattutto, essa ha perso il suo originario significato. O, per
usare le parole dell’ex direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore
Rossi, “l’effettiva attuazione del progetto ha preso una direzione diversa”[17] da quella originaria.
Seguiamo l’argomentazione di Salvatore Rossi:
“In sostanza, le banche sono divenute europee solo in un
senso, ovvero in quanto vigilate e sottoposte a risoluzione a livello
europeo. Il circolo vizioso tra settore bancario ed emittenti sovrani
non è stato spezzato, tuttavia alle banche è stata imposta una camicia di forza
volta a garantire che, in caso di fuga dai titoli di Stato emessi da un
sovrano, le banche di quel paese non verranno salvate dai contribuenti, di
quello stesso paese o di altri. In termini ancora più espliciti, a un
contribuente tedesco non si potrà mai chiedere di finanziare il salvataggio di
una banca italiana in crisi per il peso, nel proprio bilancio, di titoli di
Stato italiani in rapida discesa sui mercati. In un caso simile, sarebbero i
creditori della banca, prevalentemente italiani, a farsene carico.”[18]
Non si è troppo malevoli se si traduce così il risultato:
la funzione originaria e dichiarata dell’unione bancaria europea era quella di
ridurre la frammentazione/balcanizzazione finanziaria dell’Europa intervenuta
con la crisi (e i conseguenti rischi in termini di stabilità e tenuta della
moneta unica); quella effettiva è consistita nel prendere in ostaggio le banche
italiane, sulle quali (nel quadro istituzionale attuale) ogni incremento
significativo dello spread sui titoli di Stato italiani
determina pesanti ripercussioni in termini di conto economico e di capitale (è
il film che abbiamo visto nel maggio e nel settembre 2018).
A questo proposito consentitemi di enunciare un vero e proprio
paradosso dei dibattiti sull’euro.
Nel nostro paese è molto diffusa, anche in ambienti che
si credono progressisti (anzi, soprattutto in quelli), una concezione
apocalittica delle prospettive legate alla possibile fine della moneta unica, e
addirittura la convinzione che la fine della moneta unica sia impossibile a
priori. A Bruxelles e Francoforte, invece, si crede tanto poco in tutto
questo che si cerca di sventare l’eventualità della fine della moneta unica: in
particolare, rendendo una possibile “uscita” più difficile e onerosa.
Così, mentre in Italia illustri studiosi, ignorando
la lex monetae contemplata anche dal nostro codice civile,
anni fa si affannavano a spiegare che in caso di “uscita” il debito pubblico
avrebbe dovuto essere ripagato in euro, in sede di creazione del Meccanismo
Europeo di Stabilità venivano previste clausole punitive per le nuove emissioni
di debito pubblico, precisamente per limitare in concreto l’efficacia
della lex monetae.
L’altra contromisura assunta riguarda gli effetti
dell’unione bancaria sulle banche italiane, in particolare impedendo in radice
la possibilità di un rifinanziamento pubblico delle banche italiane,
sottraendole alla vigilanza nazionale e sottomettendole alle nuove regole
del bail-in (che comportano l’esclusione quasi assoluta del
salvataggio pubblico delle banche, che anche ove possibile è legato a
condizionalità molto stringenti). Questo ovviamente rende il legame tra rischio
paese e rischio banche – precisamente il legame che in teoria l’unione bancaria
avrebbe dovuto recidere! – tanto più pericoloso: perché rende forti rialzi
dello spread una immediata minaccia per la stabilità delle
banche italiane che li hanno in portafoglio.
È nel contesto di quanto sopra che va valutato quanto
sappiamo su ciò che è accaduto dopo il 4 marzo.
Occorre ancora un elemento preliminare, ma è così noto
che mi limito a enunciarlo: a fare l’esecutore materiale di tutto quanto
abbiamo visto sopra, insomma gli artefici del “successo catastrofico” di cui ho
dato qualche cifra, sono stati la sinistra postcomunista e il centro
postdemocristiano, dal 2008 plasticamente riunitisi in un unico partito: sono
loro, in particolare, i principali responsabili del governo Monti, che ci ha
lasciato in eredità non soltanto la crisi peggiore dall’Unità d’Italia, ma
anche – e precisamente per questo – un incremento del rapporto debito/pil del
13% (in termini percentuali, è poco meno dell’entità dell’intero decremento del
debito tra il 1994 e il 2008!).
Dei governi successivi non c’è molto da dire, ad
eccezione dell’iniziale tentativo di sfilarsi di Matteo Renzi dalla logica di
una supina accettazione dei diktat europei, tentativo
prontamente normalizzato: lo provano il jobs act, l’incapacità di
capire la necessità di sospendere l’entrata in vigore dell’unione bancaria
(pessimamente negoziata dal precedente governo Letta) e la conseguente crisi
bancaria di inizio 2016. Questa crisi è stata tutt’altro che estranea al
declino della stella renziana, poi definitamente consumatosi a causa del drammatico
errore consistente nel referendum costituzionale (anch’esso motivato con la
volontà di esibire il trofeo di tale “riforma strutturale” nel consesso
europeo). Dopo la parentesi dimenticabile del governo Gentiloni, siamo così al
4 marzo.
1.4. Dopo il 4 marzo 2018
Il voto del 4 marzo esprime un rifiuto delle politiche
dei passati governi.
Nel giugno 2018 nasce il governo giallo-verde. Esso
riunisce 2 partiti che, per quanto differenti tra loro, sono stati entrambi
premiati dal voto in quanto portatori – a giudizio dei loro elettori – di una
rottura con le prassi dei governi precedenti, anche in rapporto
all’atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea.
È subito evidente un tentativo di “normalizzazione” di
questa compagine, attraverso i ministri di quello che è stato definito come il
“terzo partito”: il partito del presidente della Repubblica (che nella
formazione del governo ha esercitato le proprie prerogative ai limiti – e forse
oltre – di quanto previsto dalla Costituzione). Questo è immediatamente chiaro
per quanto riguarda il Ministro delle Finanze Tria – ed è oggi chiaro per
quanto riguarda lo stesso presidente del Consiglio, Conte.
L’approccio del governo è comunque più pugnace di quello
dei governi precedenti, e la stessa manovra economica proposta, imperniata su
“reddito di cittadinanza” e “quota 100”, è sensata: in presenza di un evidente
rallentamento del ciclo e di un ormai cronico insufficiente contributo della
domanda interna alla crescita, è evidente la ratio di una
manovra basata sulla spinta ai consumi; la stessa obiezione tradizionale,
“spesa pubblica sì, ma va fatta per investimenti”, non tiene conto
(intenzionalmente o per ignoranza) di una circostanza fondamentale: il ritorno
in termini di crescita della spesa per investimenti è più lenta, e quindi nulla
avrebbe garantito un trattamento di maggior favore per essi da parte della
Commissione Europea; del resto, in base ai calcoli di quest’ultima – condotti
in base a una metodologia opinabilissima, imperniata sullo pseudoconcetto
di “output gap” -, l’Italia è finita in un equilibrio di
sottoccupazione e può tranquillamente restarci.
La risposta alla manovra del governo è di assoluta
chiusura da parte della Commissione Europea, a cominciare dal commissario
Moscovici (che dopo qualche mese aprirà la non fortunatissima campagna
elettorale per le elezioni europee dell’attuale ministro delle finanze
designato).
Ma c’è di peggio: importanti esponenti istituzionali, in
visita alla City di Londra, dichiarano di “sperare nei mercati”, e il commissario
Oettinger si dice fiducioso che “i mercati insegneranno agli Italiani come
votare”[19] (in seguito si accontenterà che abbiano “imparato a
votare” i parlamentari italiani, e per incentivarli dirà – lo ha fatto nei
giorni scorsi – che a Bruxelles “si farà il possibile per facilitare il lavoro
del nuovo governo italiano, quando entrerà in carica”).[20]
Il bastone dei mercati comincia ad agire e fa danni, in
particolare sul settore bancario (i motivi li ho accennati sopra).
Olivier Blanchard (a suo tempo uno dei responsabili del
FMI per il disastro greco), con ammirevole tempismo, escogita una nuova teoria:
l’espansione fiscale restrittiva. In sintesi: l’effetto positivo di una manovra
espansiva può essere più che bilanciato dall’aumento degli interessi richiesti
dagli investitori per acquistare i titoli di Stato del paese in questione.[21] La teoria è corretta. Il problema è la catena
causale: è infatti evidente che le pretese degli investitori aumenteranno
quanto più le istituzioni europee avranno assunto un atteggiamento rigido nei
confronti del governo “colpevole” di attuare misure espansive.
Il governo scende a più miti consigli, e riduce il
deficit contemplato dalla manovra al 2%.
Nel frattempo Tria e Conte blindano (con la lettera del 2
luglio 2019, scritta per chiudere una procedura d’infrazione, aperta da una
Commissione uscente, che non sarebbe comunque mai andata avanti alla luce della
frenata dell’economia tedesca) la manovra 2020 in senso restrittivo e negoziano
(cioè non negoziano) una riforma a noi sfavorevole dell’ESM,
che una volta approvata renderà assai onerosa (per davvero) un’uscita dalla
moneta unica – e quindi renderà concretamente possibile una ristrutturazione
del debito italiano restando nell’eurozona. Tutto questo rifiutandosi di fatto
di rendere partecipe il parlamento preventivamente dei loro orientamenti
negoziali, in violazione di una legge del 2012 che per ironia della sorte reca
la firma di un loro collega nel primo governo Conte, Enzo Moavero.[22] La stessa lettera del 2 luglio diverrà pubblica a
quasi due mesi di distanza da quando è stata scritta.
Ad agosto Salvini apre la crisi.
Dalla “Repubblica” del 7 settembre sappiamo che nei primi
giorni di agosto il presidente del Consiglio in carica Conte incontra Visco per
ricevere i suoi consigli… sul successivo esecutivo.[23]
L’esito della crisi è noto, come pure le inusitate
aperture della Commissione Europea (destinate con tutta probabilità a restare
puramente verbali).
Frattanto gli editorialisti economici dei nostri
principali quotidiani, da apocalittici, diventano improvvisamente integrati: lo
stesso Federico Fubini che ricordiamo prospettare sciagure bibliche e procedure
d’infrazione inesistenti sul “Corriere della sera” (smentito
in 4 casi dal corrispondente a Bruxelles del suo stesso quotidiano)[24] ora chiede al governo di fare più deficit e si dice
confidente nell’apertura e benevolenza delle istituzioni europee.[25]
Più cauto, Claudio Tito su “Repubblica” ammonisce
che “la concreta chance che la nuova Commissione europea accordi all’Italia una
consistente dose di flessibilità sui conti del prossimo anno sarà subordinata
all’impostazione di una comunicazione sotto tono. Anche perché gli obiettivi di
bilancio del nostro paese sono talmente complicati da renderli raggiungibili
solo con la collaborazione di Bruxelles. Va tenuto presente, ad esempio, che
nell’ultima lettera inviata da Conte e Tria alla Commissione – quella scritta
in extremis per evitare la procedura d’infrazione – l’Italia si era impegnata
ad una ‘ampia adesione al patto di Stabilità e crescita’. L’obiettivo
del 2 per cento nel rapporto deficit-pil fissato nell’ultimo Def appare già fin
troppo permissivo. Il vincolo potrebbe risultare più stretto. E
se poi si considera la partenza ad handicap determinata dalle clausole di
salvaguardia per 23 miliardi e i tanti indizi – confermati dai dati
dell’economia tedesca – di una ulteriore fase recessiva continentale, la
cinghia rischia di comprimersi ulteriormente“.[26]
Questo è quello che sappiamo.
2. Che fare?
Personalmente rispetto la posizione di cauta (o
benevola?) attesa di Stefano Fassina nei confronti del governo giallo-rosé,
ma non è la mia.
Per pochi semplici motivi:
Questo è un governo di normalizzazione, è la vittoria
degli Oettinger e dei Moscovici.
Questo è il governo della Commissione Europea.
È anche un governo che nasce con una tara fondamentale:
il collante fondamentale tra i partiti di governo non è programmatico, ma è la
paura delle elezioni. Questo scava un ulteriore solco tra chi se ne fa
promotore e una parte rilevante (ritengo tendenzialmente maggioritaria) del
popolo italiano.
È un solco che va ad aggiungersi a quelli già scavati dai
governi che si sono succeduti tra il 2011 e il 2018. È un’altra medaglia da
aggiungere al palmares di una “sinistra” che dagli anni Novanta in poi si è intestata
tutto quanto previsto dal manuale delle giovani marmotte liberiste: dalle
privatizzazioni all’attacco ai diritti del lavoro, dal ridimensionamento dello
Stato sociale all’attacco alla scuola pubblica, e così via.
Non esiste futuro per una sinistra che appoggi questo
governo.
Una sinistra che fa questo lascia alla destra, e solo a
lei, una prateria sconfinata, nella quale questa pascolerà. Se poi questa
destra avrà l’intelligenza (che sinora grazie ai Zaia è mancata) di diventare
il vero “partito della nazione” – quello di cui ci parlava Alfredo Reichlin
nelle sue ultime riflessioni –, allora davvero le prospettive politiche in
questo paese saranno suggellate per un lungo periodo.
Questa è la verità. Che a volte può dare fastidio, ma è
sempre “rivoluzionaria”. E questo non lo ha detto Nietzsche.
1.
Testo rivisto dell’intervento all’assemblea
dell’associazione “Patria e Costituzione”, Roma, 8 maggio 2019
(contiene anche parti che non sono state lette in assemblea, per non eccedere
troppo i tempi assegnati). ↑
2.
Nietzsche non sottovalutava la difficoltà della cosa:
“Soltanto di rado anche il più coraggioso tra noi possiede il coraggio di ciò
che veramente sa…” (F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, ovvero come
si filosofa col martello, tr. it. Milano, Adelphi, 1970, 2a ed. 1983, p.
25). ↑
3.
S. Storm, “Lost in deflation: Why Italy’s woes
are a warning to the whole Eurozone”, Institute for New Economic
Thinking, Working Paper No. 94, 5 aprile 2019. ↑
4.
S. Storm, cit., p. 15. ↑
5.
S. Storm, cit., p. 20. ↑
6.
S. Storm, cit., p. 22. ↑
7.
S. Storm, cit., p. 26. ↑
8.
S. Storm, cit., p. 34. ↑
10.
Ho trattato estesamente questo tema nel mio Costituzione
italiana contro Trattati europei. Il conflitto inevitabile, Reggio Emilia,
Imprimatur, 2015. ↑
14.
P. De Grauwe, The Limits of the Market. The
Pendulum between Government and the Market, Oxford, Oxford University
Press, 2017, pp. 117-124. ↑
17.
S. Rossi, Unione Bancaria: risultati raggiunti e
prospettive future, Wolpertinger Conference, Modena, 30 agosto 2018. ↑
18.
Ivi, p. 5; corsivi miei. ↑
23.
C. Tito, “Conte fa la pace con Visco. I consigli
di Bankitalia per non allarmare l’Ue”, la Repubblica, 7 settembre
2019. ↑
25.
F. Fubini, “La prima partita di Gualtieri:
negoziare un deficit più alto”, Corriere della Sera, 6 settembre
2019. ↑
26.
C. Tito, “Conte fa la pace con Visco. I consigli
di Bankitalia per non allarmare l’Ue”, la Repubblica, 7 settembre 2019;
corsivi miei. ↑
Link originale: http://patriaecostituzione.it/2019/09/19/il-coraggio-di-cio-che-si-sa/
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