"In Europa ci sono già i presupposti per l'esplosione di un conflitto sociale. Questo è il seme del malcontento, dell'egoismo e della disperazione che la classe politica e la classe dirigente hanno sparso. Questo è terreno fertile per la xenofobia, la violenza, il terrorismo interno, il successo del populismo e dell'estremismo politico."

domenica 29 marzo 2020

Facebook e la CIA, parte I (continua)

Nel romanzo "Uropia il protocollo Maynards" si fa cenno a rapporti tra il social network "MeWorld" e i servizi segreti.  Ecco una lettura interessante per unire i puntini tra fantasia e realtà:

WikiLeaks, la nuova ondata
La schedatura degli utenti di Facebook attuata da un'agenzia privata di intelligence. I soldi a Zuckerberg da un'altra azienda specializzata nel raccogliere informazioni sulle persone. I rapporti tra spionaggio privato e Cia. Il ruolo di informatore di un ambasciatore italiano. Da oggi, su l'Espresso, i 'file Stratfor' di WikiLeaks

DI STEFANIA MAURIZI, L’ESPRESSO 27/02/2012

E' definita 'the shadow Cia'. L'ombra della Cia. E come la più famosa agenzia di spionaggio del mondo è americana. Ma non è un ente governativo. Si chiama 'Stratfor'. E' un'azienda privata, che vende e compra informazioni destinate a clienti ricchi e potenti. Governi, grandi aziende e multinazionali di tutto il pianeta.

Ora, per la prima volta, è possibile aprire uno squarcio nel mondo segreto di Stratfor. 'L'Espresso' e 'la Repubblica' hanno avuto accesso con un pool di media internazionali ai 'Global Intelligence Files': 5,3 milioni di email interne, documenti ottenuti da WikiLeaks e che l'organizzazione di Assange inizia oggi a pubblicare sul sito (wikileaks.org/gifiles ).

Non è noto come WikiLeaks ne sia entrata in possesso. L'unica cosa certa è che, nel dicembre scorso, Stratfor è stata al centro di un attacco hacker da parte del collettivo 'Anonymous', finito per la prima volta nelle cronache dei giornali internazionali nel 2010 per aver organizzato una rappresaglia informatica a livello mondiale contro le carte di credito Visa e Mastercard, che hanno tagliato le donazioni a WikiLeaks.

Negli ultimi due anni, Anonymous ha colpito ripetutamente i siti di multinazionali e aziende che operano per il complesso militare industriale e finanziario. L'ultimo raid è proprio quello contro Stratfor: Anonymous ne avrebbe hackerato i server, prelevando milioni di comunicazioni interne dalle reti aziendali, mettendo in ginocchio per giorni il sito web. Fin da dicembre scorso i media internazionali aspettavano la pubblicazione improvvisa in rete di questi file da parte di Anonymous, che di norma spiattella tutto in rete, anche i dati delle carte di credito delle aziende e dei loro clienti.

Ma in qualche modo questa valanga di documenti è arrivata all'organizzazione di Assange, che oggi inizia a rilasciare i file in varie ondate successive e con un team di media internazionali.

Tra i documenti ci sono file che lasciano capire come gli analisti di Stratfor abbiano accesso a informazioni esclusive, come quelle sul materiale sequestrato nel covo di Bin Laden subito dopo l'eliminazione dello sceicco del terrore, notizie sulle condizioni di salute di capi di stato, su WikiLeaks e Julian Assange. Al centro dei segreti di Stratfor c'è una rete di gole profonde disseminate per il pianeta, che consentono all'azienda di assumere informazioni ovunque. Dal Kazakhstan alla Moldavia, dalla Cina fino all'Italia di Berlusconi. Generali, politici, accademici, hacker, giornalisti, spie e diplomatici.

Quello che lascia senza parole è che, stando a quanto che emerge dalle comunicazioni email, Stratfor non sembra aver protetto le identità di molte delle sue fonti, criptandole con robusti sistemi cifrati, che rendono inaccessibili i dati delicati. Tra i file si possono trovare nomi, cognomi, giudizi sull'affidabilità delle gole profonde, sistemi per contattarle e a volte perfino le ragioni per cui forniscono le informazioni. WikiLeaks ha fatto sapere che, per decidere quali documenti rilasciare, si baserà sui giudizi dei giornali partner. 'L'Espresso' e 'la Repubblica' non rilasceranno i file riguardanti le fonti. Nel database figura il nome di almeno un ambasciatore italiano.

Facebook e il mistero della Cia.
Nelle email interne degli analisti di Stratfor non poteva non sbucare un fenomeno di massa come il social network Facebook. E' il Grande Fratello che sa tutto di noi. Amicizie, foto, contatti, dati sulla nostra localizzazione geografica. E opinioni, esternazioni, adesioni a campagne sociali e politiche. A rivelare tutto questo di noi, si sa, siamo noi stessi. E' un sistema così facile e pulito di acquisire le informazioni per una qualsiasi agenzia di intelligence che se non ci fosse, andrebbe inventato. Che ci abbia pensato proprio la Cia? Gli amanti della teoria della cospirazione ne sono ossessionati.

giovedì 26 marzo 2020

Le conseguenze geopolitiche della pandemia di Coronavirus

Coronavirus: natura, incidente o arma?
·       ANALISI DIFESA, 19 marzo 2020, di Mirko Molteni in Analisi Mondo


 “Anche quando sono molto inefficaci, con pochi morti, come nel caso delle lettere all’antrace negli USA, le armi biologiche sono considerabili come armi di ‘rottura’ di massa poichè possono gettare un’intera nazione nel caos. Le armi biologiche influenzeranno molti aspetti della nostra vita di routine, mandandoli fuori schema. Porteranno il terrorismo sulla soglia di casa di ognuno di noi”. Così scriveva nel 2004 l’ufficiale indiano Sharad S. Chauhan nell’introduzione del suo libro “Biological Weapons”, tracciando un affresco che parrebbe realizzarsi oggi, sebbene il virus SARS-CoV-2, meglio noto al pubblico col nome della malattia, Covid-19, venga considerato dai più di origine naturale. E vogliamo comunque pensare che lo sia, anche perchè, storicamente, dalla Cina e in genere dall’Asia, si sono sempre diffuse pandemie che hanno raggiunto l’Europa per via di terra o di mare. E’ chiaro però che in sede di riflessioni geopolitiche non ci si può esimere perlomeno dal rilevare alcuni fatti quantomeno curiosi, lasciando il beneficio del dubbio. E del mistero.
Non è facile tracciare una, peraltro parziale, interpretazione dell’attuale pandemia di virus Covid-19 dal punto di vista dei suoi possibili aspetti strategici e militari. Le informazioni liberamente disponibili possono spesso essere intossicate dalle cosiddette “fake news”, o come preferiremmo dire noi “fandonie”, e da ipotesi complottistiche di ogni tipo.
Per ora l’unica certezza assodata è che lo sconvolgimento causato sugli assetti economici mondiali rischia di essere molto duraturo, e forse di mettere pesantemente in discussione il processo di globalizzazione degli ultimi trent’anni, che ha avuto uno dei suoi epicentri proprio nel delegare alla Cina la funzione di “manifattura universale”, attirandovi per decenni investimenti stranieri e delocalizzazioni produttive di ogni risma.
L’emergenza è reale, forse più ancora nelle sue ricadute psicologiche in economia, che nella pur drammatica mortalità, la quale, per fortuna, non è per il momento paragonabile a quella delle grandi pandemie dei secoli passati.
La Peste Nera del XIV secolo uccise nella sola Europa un terzo degli abitanti in appena tre anni, dal 1347 al 1350, mietendo secondo le stime degli storici 25 milioni di morti su un totale di circa 75 milioni di persone che allora vivevano nel nostro continente.
Bilancio terribile fu anche quello, in tempi più recenti, della celebre influenza Spagnola, quella che furoreggiò dal 1918 al 1920, segnando gli ultimi mesi della Prima Guerra Mondiale e i primi mesi del caotico dopoguerra, e che prese il nome non dalla sua origine, in realtà localizzata negli Stati Uniti, ma dal semplice fatto che a darne notizia per prima fu la stampa della Spagna neutrale, non soggetta a censura bellica.
Nel caso della spagnola, che essendo dovuta a un virus influenzale è simile nelle modalità di trasmissione all’odierna epidemia, i morti furono almeno 50 milioni in tutto il mondo, di cui 600.000 in Italia (pari suppergiù al numero dei militari caduti al fronte!), anche se c’è chi propende per i 100 milioni.
Al momento attuale il Covid-19 sembra avere un decorso tragico in una parte minoritaria, seppur cospicua, dei contagiati e le problematiche più critiche nello specifico dell’Italia sono il congestionamento e il rischio di collasso del sistema sanitario nazionale per carenza di posti letto di terapia intensiva, complici gli scriteriati tagli finanziari alla sanità pubblica susseguitisi negli ultimi anni. La guardia non va però abbassata nemmeno sotto l’aspetto della pura mortalità, perchè il virus, nelle sue infinite replicazioni, potrebbe mutare in forme ancor più aggressive, sebbene gli scenari peggiori restino per il momento un’ipotesi degli specialisti in biochimica.

La Cina indebolita
Dal canto nostro possiamo rilevare che l’emergenza si annuncia prolungata nel tempo, avendo anche gli altri Stati dell’Unione Europea varato misure di blocco della vita socio-economica paragonabili a quelle italiane e, prima ancora, cinesi. Poichè la Cina è stato il paese dove prima di ogni altro il virus si è manifestato, e dove l’arginamento registratosi attorno al 15 marzo del 2020 sembra avere avuto un relativo successo, i dati divulgati il 16 marzo dalle autorità di Pechino circa le conseguenze dell’epidemia nei primi due mesi dell’anno possono già dare una vaga idea dello sconquasso.
A parte i lutti, che comunque non hanno prezzo dati gli aspetti spirituali ed emozionali irriducibili alle catene del livello economico, la Cina, come “sistema”, ha subìto un crollo del 13,5 % della produzione industriale e un calo del 20,5 % della domanda interna, cioè i consumi dei cinesi, mentre gli investimenti sono affondati del 24 %.
Nelle stesse ore la Banca Centrale Cinese ha stabilito un intervento di sostegno da 100 miliardi di yuan, oltre 14 miliardi di dollari, per le banche commerciali del paese in modo da assicurare crediti alle aziende in crisi.
E’ presto per dire che la “locomotiva” del mondo sia deragliata, ma non c’è dubbio che l’epidemia sia calata come una mannaia su una Cina che già aveva chiuso il 2019 all’insegna di svariate preoccupazioni strutturali.
Il 17 gennaio 2020, quando ancora l’epidemia era agli inizi, il responsabile dell’Ufficio Nazionale di Statistica di Pechino, Ning Jizhe, divulgava i dati aggiornati a fine 2019 che davano la popolazione del paese a 1,435 miliardi di persone, lamentando tuttavia il continuo calo delle nascite, indizio di un invecchiamento del paese. Rispetto alla gran massa cinese, nel 2019 sono nati “solo” 14,65 milioni di bambini, pari a un tasso di natalità di 10,48 ogni mille persone.
E’ il terzo anno consecutivo di calo delle nascite, dopo che nel 2017 queste erano calate a 17,23 milioni (tasso del 12,43) rispetto alle 17,86 milioni (tasso 12,95) del 2016. Nel 2018 erano poi scese a 15,23 milioni (tasso 10,94), per poi, appunto calare ancora di 580.000 “culle vuote”. Da quando Mao Zedong fondò la Repubblica Popolare nel 1949, non sono mai nati così “pochi” bambini in Cina come nel 2019, e alla luce degli sconvolgimenti che il Covid-19 si lascerà dietro è presumibile che anche nel 2020 e forse negli anni successivi potrebbe consolidarsi un’ulteriore diminuzione di natalità.
E’ chiaro che gli effetti pratici in fatto di calo della manodopera si avranno fra una ventina d’anni, quando i nuovi nati entreranno nell’età adulta, ma la prospettiva di un invecchiamento della società cinese analogo, fatte le debite proporzioni, a quello dei paesi occidentali spaventa già adesso una classe dirigente, quella di Pechino, che già di per sè tende a fare programmi a lunga scadenza.
L’Ufficio Nazionale di Statistica ha anche lanciato l’allarme sul fatto che il rallentamento demografico si sta abbinando a un rallentamento della crescita del Prodotto Interno Lordo. Il 2019 è stato per la Cina non solo l’anno col più basso tasso di natalità degli ultimi 70 anni, ma anche quello con la crescita del PIL più bassa, il 6,1 % contro il 6,6 % del 2018. Il PIL cinese cresce sempre meno per vari fattori, registrati dagli economisti, come il calo dei consumi interni, indice di una minor fiducia nel futuro, e una stagnazione delle esportazioni, che nel 2019 sono aumentate solo dello 0,5 %, come riflesso del braccio di ferro con l’America sui dazi.
Come se non bastasse, incombe il crescente indebitamento della Cina a tutti i livelli, privato e pubblico, arrivato al 155 % del PIL. Le insolvenze dei debiti societari sono arrivate a 130 miliardi di yuan (18,7 miliardi di dollari) nel 2019, rispetto ai 121,9 miliardi di yuan del 2018, quando c’era stato un balzo rispetto ai soli 26,6 miliardi di yuan del 2017.
E’ quindi su una nazione già in affanno che si è abbattuta la “piaga biblica” del Covid-19, questo microscopico essere che minaccia di affossare quello che avrebbe dovuto essere “il secolo cinese”. Al diretto impatto del virus sul tessuto industriale e commerciale cinese, a causa del blocco totale di gigantesche aree come quella dell’Hubei, ma anche altri distretti nevralgici, vanno aggiunte infatti le conseguenze che potrebbe portare sul commercio internazionale.
Cina a parte, se l’emergenza nel resto del mondo dovesse durare troppo tempo, potrebbero levarsi dubbi crescenti sull’opportunità di proseguire con una globalizzazione spinta.
Già di per sè le epidemie pongono ostacoli alla libera circolazione internazionale delle persone, ma in senso indiretto possono coinvolgere anche le merci e la divisione internazionale del lavoro. Prendiamo ad esempio il problema delle mascherine sanitarie di cui si è registrata carenza in Italia, poichè venivano tutte importate dall’estero, tanto che si è iniziato a invocarne una produzione nazionale, leggi “autarchica”.
Discorso simile lo si potrebbe fare per l’arresto della filiera industriale, specie automobilistica, in molti paesi europei per l’interruzione dell’arrivo di parti meccaniche dall’Asia.
E’ plausibile che, per estensione, e per proteggere i posti di lavoro minacciati dalla nuova crisi, col tempo le nazioni occidentali possano ripensare la delocalizzazione, anche con decisi diktat degli Stati, preferendo aumentare la quota di prodotti fabbricati, o almeno “trasformati”, all’interno dei propri confini, a discapito dei prodotti finiti importati dall’estero, e nello specifico dalla Cina (ma lo stesso discorso, almeno in linea di principio, potrebbe valere anche per il “made in Turkey, Bangladesh, India”, eccetera). La tendenza a ritornare, almeno parzialmente, a fabbricarci in patria molti prodotti finiti, a bassa, ma forse anche ad alta tecnologia, finora demandati al “made in China” potrebbe essere devastante per il Dragone, che proprio sulle esportazioni di massa ha fondato la sua uscita dalla povertà, a partire dai timidi esperimenti avviati da Deng Xiao Ping nel 1979 con le prime Zone Economiche Speciali.
In ogni senso, quindi, la Cina potrebbe essere la nazione che più di tutte paga “dazio”, è il caso di dirlo, al virus, nel senso che gran parte dei danni subiti dalle economie occidentali potrebbero, almeno teoricamente, essere ancora “scaricati” sulla stessa Cina invertendo, a poco a poco, la tendenza a far costruire ai cinesi un mucchio di merci, dai cacciavite ai cellulari, che qualsiasi paese occidentale è in grado di produrre sul suo territorio.
In effetti, il gioco dei cambi valutari fra le varie monete che finora ha reso redditizia la delocalizzazione potrebbe entrare in crisi risentendo delle perturbazioni a cascata a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane, sempre a causa dell’epidemia.
Il concomitante scenario saudita
Le perdite delle maggiori borse, sia in Europa, sia negli Stati Uniti, e il bisogno di liquidità hanno già spinto il 15 marzo la Federal Reserve a ridurre i tassi d’interesse del dollaro fra 0 e 0,25 %, quasi nulla, e a impegnarsi a comprare ben 700 miliardi di dollari in titoli.
Ma poche ore dopo, il 16 marzo, le borse mondiali seguitavano nonostante ciò a perdere terreno, spingendo il Fondo Monetario Internazionale a impegnarsi per 1.000 miliardi di dollari. Una tempesta del genere è aggravata dalla sovrapproduzione di petrolio che a causa della guerra al ribasso fra Russia e Arabia Saudita, non esclusi gli USA che sgomitano con il loro “shale oil”, ha fatto segnare il 16 marzo un record di soli 29 dollari al barile, dopo una continua discesa. Il brusco calo della domanda di greggio a causa dell’arresto dell’economia e dei trasporti, specie quelli aerei, in tutto il mondo rischia di far collassare il mercato dell’oro nero ponendo in difficoltà soprattutto l’Arabia Saudita, che per pareggiare il suo deficit di bilancio ha bisogno di un prezzo di ben 80 dollari al barile, mentre la Russia inizia a “perderci” solo da quando il prezzo scende sotto i 40 dollari.
E ciò senza contare il fatto che l’economia dell’Arabia Saudita è assai poco diversificata, mentre la sua stabilità politica è un’incognita se si considerano i nuovi arresti ordinati dall’uomo forte del paese, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, vicepremier e ministro della Difesa. Il 7 marzo 2020 Bin Salman ha fatto arrestare con l’accusa di preparare un colpo di stato tre suoi parenti della famiglia reale, cioè suo fratello principe Ahmed, l’ex-principe ereditario Mohammed Bin Nayaf, che era designato alla successione dell’anziano re Salman fra il 2015 e il 2017, quando fu “scavalcato” dall’ambizioso Bin Salman, e il di lui fratello Nawaf Bin Nayef.
Non pago, il 16 marzo il principe ereditario ha anche sbattuto in gattabuia, tramite la Nazaha, la Commissione anticorruzione nazionale saudita, ben 298 funzionari governativi, militari, giudici, insomma la “crema” dell’apparato statale saudita, accusati di “corruzione, abuso di ufficio e dell’appropriazione indebita”.
Una simile purga, che ricorda quella attuata da Bin Salman nell’autunno 2017, conferma che a Riad il clima è torbido e che la posizione dell’ambizioso principe è insicura. I contraccolpi economici causati dal virus stanno mandando in rosso i bilanci sauditi mettendo a rischio i sogni di riforma e modernizzazione del paese che Bin Salman pronosticava entro il 2030.
Mentre l’85enne re Salman, suo padre, si avvia al tramonto, il principe e i suoi avversari sono impegnati in una lotta senza esclusione di colpi che potrebbe portare il paese petrolifero a una difficilissima situazione, già aggravata dal crollo dei prezzi del barile.
E’ chiaro che se l’Arabia Saudita, già impegolata nella lunga guerra in Yemen, “saltasse”, in termini di rivolte, golpe, tentati golpe o guerra civile, ci sarebbero fortissimi contraccolpi sul valore del dollaro, la cui forza come massima moneta internazionale è dovuta in gran parte allo status di petroldollaro basato sull’asse fra Washington e Riad. In caso contrario infatti la Federal Reserve non potrebbe stampare montagne di biglietti verdi senza il rischio che il loro valore cali troppo bruscamente. Ecco quindi che, mettendo da parte lo specifico teatro del Medio Oriente, che in questa sede non ci interessa approfondire, per vie indirette, il virus può danneggiare la Cina anche mettendo potenzialmente in discussione (almeno in parte) gli assetti valutari e quelle differenze di valore monetario che avevano fin qui avvantaggiato gli investimenti produttivi nel colosso asiatico.

martedì 24 marzo 2020

Perché difendere il contante? 12 domande e risposte.

Uno degli argomenti trattati in "Uropia il protocollo Maynards" è l'abolizione del denaro contante e la sua sostituzione con metodi di pagamento esclusivamente elettronici, tracciabili, sorvegliabili, manipolabili sotto l'aspetto del loro valore e sopprimibili in remoto con un semplice "click".
Ecco alcune utili informazioni in forma di FAQ:

1. In cosa consiste la lotta al contante di cui si sente molto parlare ultimamente, in quali misure si concretizza e quali sono gli effetti economici?
Per contante intendiamo le banconote cartacee e le monete metalliche, che è la forma assunta dalla moneta legale. La lotta al contante è caratterizzata dall’attuazione di misure volte a limitarne progressivamente l’uso, così come previsto nel decreto fiscale 2020. Tali misure vanno dalle limitazioni all’uso di banconote previste nei pagamenti alle sanzioni per mancata accettazione di pagamenti con carta di debito o di credito, il tutto per ottenere una minore circolazione di contanti. Questa riduzione deve poi essere compensata da un aumento di strumenti alternativi offerti da intermediari autorizzati come le banche, ad esempio i bonifici e i bancomat, che per semplicità chiamiamo moneta elettronica.
Le finalità dichiarate di chi persegue questa operazione sono quelle di dover sostituire una moneta che circola in modo anonimo con una controllabile, in modo da poter meglio contrastare fenomeni illeciti quali l’evasione fiscale, il riciclaggio, fino al terrorismo. Se così fosse si capirebbe a fatica perché in paesi come la Germania e l’Austria non vi siano limitazioni all’uso di banconote, ma prima di affrontare questi temi vediamo il primo e rilevante effetto di questa operazione, ovvero cosa accade se nelle tasche dei cittadini viene sostituito il contante, quindi la moneta legale, con la moneta elettronica: banalmente accade che la circolazione monetaria che prima era gratuita per i cittadini ora presenta un costo. Vediamo in che senso.
Le banconote cartacee vengono emesse dalle Banche centrali e poi iniziano a circolare di mano in mano senza costi per nessuno nei vari passaggi. La moneta elettronica invece è un servizio offerto dalle banche e circola con dei costi in un sistema di pagamento privato. Per ogni passaggio, ad esempio a mezzo bonifico o di carta di pagamento, vengono versate delle commissioni alle banche e istituti emittenti da parte di cittadini ed esercenti, sui quali gravano anche i costi di installazione e dei canoni per i terminali necessari al processo.
Nella condizione attuale di difficoltà in cui versano le imprese e di necessità per un rilancio dei consumi vista la bassa crescita, questi costi aggiuntivi sui passaggi di denaro e quindi sui consumi avrebbero un effetto recessivo oltre ad alimentare i livelli di esasperazione di chi vede caricarsi sulle spalle gli ennesimi costi per gestire attività sempre più a rischio di chiusura. 
2. Se si abbassassero questi costi non si potrebbero superare i problemi più rilevanti?
Si stanno valutando sistemi di deduzioni e detrazioni fiscali, nel senso che i costi sostenuti per le commissioni si recuperano parzialmente in un secondo momento pagando meno tasse.
Però, a parità di commissioni bancarie applicate, del mancato introito per l’erario dovuto allo sgravio se ne farà carico la fiscalità generale, ovvero ci saranno tasse pagate da tutti noi che dovranno sostenere il costo delle commissioni bancarie.
Visto che l’operatività delle banche non può esimersi dalle entrate delle commissioni, la parte dei costi tolti al diretto interessato si scaricherebbe su tutti i contribuenti e quindi su tutti noi.
Ma facciamo una ulteriore ipotesi francamente inverosimile, ovvero che per consentire il processo di eliminazione del contante si acconsentisse miracolosamente ad azzerare le commissioni. Questo inizialmente ammorbidirebbe le resistenze alla eliminazione del contante favorendone l’obiettivo che però, una volta raggiunto, determinerebbe l’instaurazione di una sorta di monopolio privato del sistema di pagamento, quello bancario. Così se iniziassero da quel momento a salire esponenzialmente i costi delle transazioni le persone non avrebbero più l’alternativa del contante e quindi sarebbero costrette a caricarsi di quei costi non appena venisse effettuato un pagamento. Una vota eliminato il contante il potere di far aumentare i costi delle transazioni diverrebbe così praticamente arbitrario.
3. Per rifuggire da questi costi allora tante persone terrebbero i soldi al sicuro sotto forma di depositi limitando la circolazione, o no?
Sui soldi al “sicuro” meglio non soffermarsi vista la corrente normativa del bail-in per la quale il salvataggio di un istituto finanziario sull’orlo del fallimento ricadrebbe su obbligazionisti e correntisti. A parte ciò, l’eliminazione del contante inciderebbe negativamente anche sulla possibilità di preservare il valore dei nostri risparmi in banca. Infatti i tassi d’interesse attuali sono prossimi allo zero e probabilmente resteranno tali per lungo tempo come effetto della bassa crescita. L’esistenza del contante però è un argine allo sconfinamento in territorio negativo dei tassi d’interesse, ovvero è un argine all’ipotesi che se oggi ho cento euro in banca domani potrei averne meno senza averli toccati. Pensiamo al seguente scenario.  Poniamo che il costo per tenere 100 euro affittando una cassetta di sicurezza o depositandoli in banca fosse lo stesso. Ragionando al netto di questo costo, se tenessi la banconota ferma e al sicuro nella cassetta non troverei cancellato il numero 100, che è il suo valore nominale, e non vedrei riscritto un nuovo numero più basso. Se invece la tenessi sotto forma di deposito bancario e vi fossero i cosiddetti tassi di interesse negativi, dopo un certo tempo visualizzando il conto vedrei che il valore 100 è diminuito.
L’immutabilità del valore scritto sulla banconota, invece, equipara la moneta cartacea a una obbligazione a tasso zero, il cui possesso garantisce il risparmiatore proprio dai tassi negativi.
L’importanza dell’esistenza del contante per preservare i risparmi appare così evidente, perché finché c’è la possibilità di prelevare e conservare i contanti altrove i tassi d’interesse bancari rimarranno prossimi allo zero, mentre senza il contante non vi sarebbe una alternativa sicura rispetto ai depositi bancari e quindi i risparmi sarebbero intrappolati nei depositi ed esposti all’erosione nel tempo.
Riassumendo, dovrebbe a questo punto essere chiaro che senza l’esistenza del contante se la moneta circola paga un costo, se sta ferma paga un altro costo.
4. Certo che così non si scappa! C’è la possibilità di superare le banconote cartacee senza incorrere in tutti questi problemi?  
Per realizzare un sistema dei pagamenti elettronico senza incorrere in questi problemi basterebbe partire dalla consapevolezza che la moneta, cartacea o elettronica che sia, è un bene pubblico e quindi deve essere gestito tramite banche pubbliche in cui aprire gratuitamente dei conti correnti e sviluppare così un circuito dei pagamenti interno. In questo caso il servizio dovrebbe essere reso gratuitamente. La banca pubblica non dovrebbe fare profitti ma tutelare il risparmio. A chi affermasse la necessità assoluta di realizzare un sistema di pagamenti totalmente elettronico, perché visto come trasparente e controllabile, occorrerebbe obiettare che solo a condizione di un sistema di pagamento pubblico ciò sarebbe pensabile, in assenza del quale il contante svolge tutt’ora una funzione di difesa dei livelli di attività economica e della tutela dei risparmi. Quindi prima si crea un sistema di pagamento pubblico, poi si può ragionare sulla funzione del contante. Il prima e il dopo in politica fanno tutta la differenza del mondo.
Invece stiamo assistendo a un processo esattamente inverso, in cui il drastico ridimensionamento del contante è divenuto obiettivo prioritario nell’agenda politica attuale. La forzatura del processo di marginalizzazione del contante a favore della moneta elettronica risulta evidente in tutta una serie di misure presenti nella manovra finanziaria 2020.  Nella manovra i bonus fiscali risultano a rischio se si usa il contante, infatti su 51 bonus fiscali (tra detrazioni e deduzioni) inseriti in 1,3 milioni di dichiarazioni dei redditi presentate quest’anno, dieci non ammettono il cash mentre per altre 23 usare la moneta di carta è di fatto impossibile.

domenica 22 marzo 2020

Il mondo dopo il corona virus: la dittatura della sorveglianza permanente.

Yuval Noah Harari: the world after coronavirus.


Humankind is now facing a global crisis. Perhaps the biggest crisis of our generation.
The decisions people and governments take in the next few weeks will probably shape the world for years to come. They will shape not just our healthcare systems but also our economy, politics and culture. We must act quickly and decisively. We should also take into account the long-term consequences of our actions. When choosing between alternatives, we should ask ourselves not only how to overcome the immediate threat, but also what kind of world we will inhabit once the storm passes.
Yes, the storm will pass, humankind will survive, most of us will still be alive — but we will inhabit a different world.  Many short-term emergency measures will become a fixture of life. That is the nature of emergencies. They fast-forward historical processes.   Decisions that in normal times could take years of deliberation are passed in a matter of hours.

Immature and even dangerous technologies are pressed into service, because the risks of doing nothing are bigger. Entire countries serve as guinea-pigs in large-scale social experiments.
What happens when everybody works from home and communicates only at a distance? What happens when entire schools and universities go online?  In normal times, governments, businesses and educational boards would never agree to conduct such experiments. But these aren’t normal times.

In this time of crisis, we face two particularly important choices. The first is between totalitarian surveillance and citizen empowerment. The second is between nationalist isolation and global solidarity.

sabato 21 marzo 2020

Yuval Noah Harari: "Dittatura Coronavirus" in Israele. In Italia quando?

Yuval Noah Harari Warns Against 'Coronavirus Dictatorship' in Israel – Netanyahu's Son Calls Him 'Stupid'


Yair Netanyahu ramped up the Twitter invective after the Hebrew University professor accused the premier of destroying democracy ‘under pretext of fighting’ the coronavirus outbreak

HAARETZ, Mar 19, 2020 10:43 PM

Yuval Noah Harari attends a session at the 50th World Economic Forum (WEF) annual meeting in Davos, Switzerland, January 21, 2020.Denis Balibouse/Reuters
Philosopher and historian Yuval Noah Harari harshly criticized Benjamin Netanyahu on Thursday, saying the prime minister was using the coronavirus crisis to destroy Israeli democracy – a tweet that sparked the ire of the premier’s son, Yair, who was quick to fire back.

Coronavirus has killed democracy,” Harari wrote. “Netanyahu lost the elections. So under pretext of fighting corona, he has closed the Israeli parliament, ordered people to stay in their homes, and is issuing whatever emergency decrees he wishes. This is called a dictatorship.”

Will Israel's cyber spies let Bibi use coronavirus to kill democracy?Haaretz
Harari added: “In Italy, Spain and France emergency decrees are issued by a government that the people elected. This is legitimate. In Israel emergency decrees are issued by someone who has no mandate from the people. This is a dictatorship.”
Yair Netanyahu, 28, retorted that Harari, a Hebrew University professor and the author of the best-selling “Sapiens: A Brief History of Humankind,” was an example of why “clever professors can be stupid about politics.”
The younger Netanyahu also compared Harari to Albert Einstein, who he claimed “didn’t understand politics” and “opposed Zionism.”
He then argued why his father’s Likud party actually won Israel’s March 2 election, while bashing Kahol Lavan for its willingness to cooperate with the Joint List alliance of Arab-majority parties – after Benny Gantz’s party promised not to do so during its election campaign.
“Perhaps because [the Joint List] includes people who glorify those who crush the skulls of babies,” Yair Netanyahu tweeted in Hebrew.

On Monday, President Reuven Rivlin gave Gantz the mandate to form a government after the former military chief won the majority of recommendations from Knesset lawmakers.
Extending his attack, the younger Netanyahu tweeted that everything Harari has written since “Sapiens” in 2011 “has been very disappointing, with globalist paradigms, as if they were written by [George] Soros. And with all due respect, your book is essentially an AliExpress version of Will Durant.”
AliExpress is a web-based retail service; Durant was a historian and philosopher who with his wife Ariel wrote the 11-volume “The Story of Civilization” between 1935 and 1975.
Harari’s initial tweet was part of the protests in Israel against what critics of the Netanyahu government are calling an “assault on democracy” in the face of the coronavirus outbreak.

giovedì 19 marzo 2020

Gli "esperti" e l'austerità.

Una lettera illuminante a proposito di economia, "esperti", lascienza, austerità:


Growth in a Time of Debt
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Growth in a Time of Debt (in italiano: La crescita ai tempi del debito, conosciuto anche come Reinhart-Rogoff, dal nome dei suoi autori, talvolta abbreviato in RR 2010) è un controverso lavoro scientifico pubblicato nel 2010 sulla American Economic Review, i cui autori sono due noti economisti dell'Università di HarvardCarmen Reinhart e Kenneth Rogoff. L'articolo è stato ripreso e citato di frequente da politici, commentatori, e attivisti, in dibattiti politici vertenti sull'opportunità e l'efficacia di politiche fiscali ed economiche di austerity e rigore quando queste vengono applicate in contesti di economie gravate da forte incidenza del debito pubblico sul Prodotto interno lordo[1].
Tesi
Si tratta di uno studio empirico la cui tesi centrale può essere riassunta così: quando "il debito estero lordo raggiunge il 60% del Prodotto interno lordo", il tasso annuo di crescita economica di un paese calerebbe di due punti percentuali, mentre "per livelli del debito estero superiori al 90%", la crescita del PIL sarebbe "all'incirca dimezzata"[2]. Apparso nella temperie della crisi finanziaria ed economica iniziata negli anni 2000, lo studio ha fornito un quadro teorico di riferimento per giustificare politiche di rigore e austerity[3].
Nel 2012, in ambienti accademici, si levarono voci critiche che ritenevano lo studio viziato da fallacie metodologiche e dal fatto che i dati su cui riposava l'analisi non giustificavano in alcun modo le conclusioni a cui giungevano gli autori, con il risultato che lo studio aveva portato all'adozione ingiustificata di dure politiche di rigore nei paesi a forte indebitamento[4][5].
Critiche
Il fatto che la sfera decisionale della politica sia stata così influenzata in modo così pesante da uno studio debole e inficiato da errori metodologici, ha portato l'economista di PrincetonPaul Krugman, vincitore del premio Nobel per l'economia, a esprimersi in questo modo[6]:
«Quello che ci insegna il caso dello studio Reinhart-Rogoff è fino a che punto l'austerity è stata spacciata servendosi di falsi pretesti. Per tre anni, l'adozione di politiche di austerity è stata presentata non come una scelta ma come una necessità. Secondo i suoi sostenitori, era la ricerca economica ad aver mostrare come eventi terribili succedano ogni volta che il debito superi il 90 per cento del PIL. Ma la "ricerca economica" non ha affatto mostrato cose del genere; è stata una coppia di economisti a sostenere quell'asserzione, mentre molti altri dissentivano. I decisori delle policy hanno abbandonato i disoccupati e si sono rivolti all'austerity per scelta, non perché vi fossero costretti.»
Influenza politica
Nella loro critica al lavoro di Reinhart e Rogoff, Thomas Herndon, Michael Ash, e Robert Pollin, economisti dell'Università del Massachusetts ad Amherst, hanno mostrato come, nel sistema politico statunitenseGrowth in a Time of Debt abbia influenzato "The Path to Prosperity", la proposta di bilancio del Partito Repubblicano (indicata normalmente come "Paul Ryan budget"):[7]
RR 2010a [Growth in a Time of Debt, n.d.r.] è la sola prova citata nel "Paul Ryan Budget" circa le conseguenze di un alto debito pubblico sulla crescita economica. Il "Path to Prosperity" del deputato Paul Ryan così riporta (Ryan 2013, p. 78):
Un ben noto studio condotto dagli economisti Ken Rogoff e Carmen Reinhart conferma questa conclusione di buonsenso. Lo studio ha trovato prove empiriche definitive circa il fatto che un debito lordo (intendendo con questo tutto il debito contratto da un governo, incluso il debito detenuto tramite fondi fiduciari) che supera il 90 percento dell'economia ha un marcato effetto negativo sulla crescita economica.
RR ha chiaramente esercitato un influsso importante, in anni recenti, nel dibattito sulle policy pubbliche sulla gestione del debito statale e sulle politiche fiscali più in generale. I risultati dello studio hanno fornito un sostegno significativo per l'agenda di austerity che ha avuto un crescente seguito in Europa e negli Stati Uniti dal 2010.
Olli RehnCommissario europeo per gli affari economici e monetari, nel discorso tenuto il 9 aprile 2013 alla Organizzazione internazionale del lavoro, ha usato lo studio Reinhart-Rogoff per sostenere che "ci si attende che il debito pubblico in Europa si stabilizzi solo a partire dal 2014 e che questo avverrà solo a livelli superiori al 90% del PIL. Seri studi empirici hanno mostrato che, a livelli così alti, il debito pubblico agisce come una zavorra permanente sulla crescita."[8]
George Osborne, membro del Partito Conservatore nel Parlamento britannico e Cancelliere dello Scacchiere del governo di David Cameron, si è basato sullo scritto dei due economisti per sostenere come le cause universali delle crisi finanziarie risiedessero nell'eccessivo debito: "Come Rogoff e Reinhart hanno dimostrato in maniera convincente, tutte le crisi finanziarie hanno, in definitiva, una medesima origine"[9].
Errori metodologici
In uno studio dal titolo "Does High Public Debt Consistently Stifle Economic Growth? A Critique of Reinhart and Rogoff", Thomas Herndon, Michael Ash, e Robert Pollin hanno sostenuto che l'analisi statistica compiuta dai due autori sui dati contenuti nel foglio elettronico Excel originale (che i due avevano usato a sostegno delle conclusioni dell'articolo) era inficiata da errori e, probabilmente, da bias statistico: "Usando il foglio elettronico su cui hanno lavorato Reinhart e Rogoff, abbiamo identificato errori di codifica ed esclusioni selettive di dati disponibili, e di pesatura non convenzionale nelle statistiche riassuntive". Avvalendosi dello stesso foglio di calcolo usato in origine da Reinhart e Rogoff, ma correggendo quelli da loro individuati come errori, Herndon e collaboratori hanno trovato che[10]:
Se correttamente calcolato, il reale tasso di crescita medio del PIL per paesi gravati da un rapporto Debito/PIL superiore al 90 per cento è pari, in realtà, al 2,2 percento, non il valore di −0,1 per cento pubblicato in Reinhart e Rogoff. Questo, contrariamente a quanto sostenuto in RR, significa che il tasso di crescita medio dei paesi con rapporto Debito/PIL superiore al 90 per cento non è radicalmente differente da quelli di paesi in cui lo stesso rapporto Debito/PIL era inferiore.
Reinhart e Rogoff non avevano reso pubblico il campione statistico su cui hanno fondato le loro conclusioni[4]. Il loro campione non ha beneficiato di una revisione paritaria fino a che Herndon e collaboratori non lo ricevettero dagli stessi Reinhart e Rogoff nel 2013, attraverso una comunicazione personale con cui gli autori dello studio esaudivano una loro richiesta. Dopo averlo esaminato, ne trassero la conclusione che il campione era affetto da bias statistico, scaturito dal fatto che Reinhart e Rogoff avevano compiuto un'omissione selettiva di dati statistici relativi all'andamento delle economie di AustraliaCanada e Nuova Zelanda nella fase iniziale del secondo dopoguerra. Tali dati evidenziavano alti livelli di crescita economica nonostante la mole del loro debito pubblico. Invece, per lo stesso periodo, erano stati inclusi i dati dell'economia statunitense che mostravano un calo del PIL (tasso di crescita negativo), che Herndon attribuisce, invece, alla smobilitazione del personale militare statunitense dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Ash conclude dicendo che "il fallimento del risultato empirico secondo cui debiti pubblici elevati sono inevitabilmente associati con tassi di crescita economica fortemente ridotti, unito alla debolezza del meccanismo teorico nelle attuali condizioni, [...] rendono l'idea centrale di Reinhart and Rogoff praticamente irrilevante per l'attuale dibattito sulle policy statali"[4].
Reinhart e Rogoff hanno replicato alle critiche di Herndon e collaboratori pubblicando una lunga e dettagliata risposta sul The New York Times[11]:
Herndon, Ash e Pollin hanno accuratamente mostrato gli errori di codifica che hanno portato all'omissione di alcuni paesi dalla media riportata nella figura 2. Punto. HAP (Herndon, Ash e Pollin, n.d.r.) vanno oltre notando qualche altra omissione relativa ai debiti [Nuova Zelanda], che descrivono come "omissione selettiva". Questa accusa, che permea tutto il loro studio, è qualcosa a cui noi ci opponiamo nei termini più risoluti [...] I dati per la Nuova Zelanda negli anni attorno alla seconda guerra mondiale sono stati semplicemente incorporati e non abbiamo vagliato la confrontabilità e la qualità dei dati con quelli per il periodo più recente [...] Essi sostengono che noi usiamo una "pesatura non convenzionale delle statistiche riassuntive". In particolare, per ogni barra dell'istogramma, noi prendiamo il tasso medio di crescita per ciascun paese e facciamo una media del risultato. Questo ci sembra perfettamente lecito, e di sicuro non anticonvenzionale.
L'economista L. Randall Wray ha criticato Reinhart e Rogoff per aver combinato dati "attraverso secoli, regimi di cambiodebiti pubblici e privati, e debiti denominati in valuta estera con debiti in valuta locale", in aggiunta a "errori statistici"[5]. Randall Wray, inoltre, critica la mancanza di una "teoria della moneta sovrana".[12]
Tuttavia, gli stessi Reinhart e Rogoff[13] ed il FMI[14] in papers più recenti e privi delle fallacie riscontrate in "Growth in a time of debt" hanno ottenuto risultati simili a quelli originariamente pubblicati e contestati, riportando in auge il dibattito internazionale e la credibilità del primo studio.
Note
1.    ^ Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, Debt, Growth and the Austerity Debate, in The New York Times, New York, 26 aprile 2013, p. A6.
2.    ^ Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, Growth in a Time of Debt, in American Economic Review, vol. 100, nº 2, 2010, pp. 573–78, DOI:10.1257/aer.100.2.573.
3.    ^ Daniel Shuchman, That Reinhart and Rogoff Committed a Spreadsheet Error Completely Misses the Point, su Capital FlowsForbes.com, 18 aprile 2013.
4.    ^ Salta a:a b c 28-Year Old PhD Student Debunks the Most Influential Austerity Study, su The Real News Network, 23 aprile 2013. Trascrizione di un'intervista a Thomas Herndon e Michael Ash.
5.    ^ Salta a:a b L. Randall Wray, Why Reinhart and Rogoff Results are Crap, su EconoMonitor, Roubini Global Economics, 20 aprile 2013.
6.    ^ Paul KrugmanThe Excel DepressionThe New York Times, 18 aprile 2013
7.    ^ Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin, Does High Public Debt Consistently Stifle Economic Growth? A Critique of Reinhart and Rogoff (PDF), Political Economy Research InstituteUniversity of Massachusetts Amherst, 15 aprile 2013. URL consultato il 2 maggio 2013.
8.    ^ Jeremy Smith, From Reinhart & Rogoff's Own Data: UK GDP Increased Fastest When Debt-to-GDP Ratio Was Highest—and the Debt Ratio Came Down!, su Prime: Policy Research in Macroeconomics, Policy Research in Macroeconomics Ltd, 20 aprile 2013.
9.    ^ authorJames Lyons, George Osborne's Favourite 'Godfathers of Austerity' Economists Admit to Making Error in Research, in Mirror Online, 17 aprile 2013.
10.  ^ Thomas Herndon, Michael, Ash, Does High Public Debt Consistently Stifle Economic Growth? A Critique of Reinhart and Rogoff (PDF), Political Economy Research InstituteUniversity of Massachusetts Amherst, 15 aprile 2013, p. 1. URL consultato il 4 maggio 2013.
11.  ^ Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, Full Response from Reinhart and Rogoff, in The New York Times, 17 aprile 2013. URL consultato il 4 maggio 2013.
12.  ^ L. Randall Wray, Why Reinhart and Rogoff Results are Crap, su EconoMonitor, Roubini Global Economics, 20 aprile 2013.
Approfondimenti
Collegamenti esterni
·       Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, Growth in a Time of Debt, in American Economic Review, vol. 100, nº 2, 2010, pp. 573–78, DOI:10.1257/aer.100.2.573.


Link originale: https://it.wikipedia.org/wiki/Growth_in_a_Time_of_Debt