"In Europa ci sono già i presupposti per l'esplosione di un conflitto sociale. Questo è il seme del malcontento, dell'egoismo e della disperazione che la classe politica e la classe dirigente hanno sparso. Questo è terreno fertile per la xenofobia, la violenza, il terrorismo interno, il successo del populismo e dell'estremismo politico."

domenica 1 marzo 2020

QED: come le pandemie possono essere uno strumento per instaurare una società di sorveglianza di massa

Tempo fa scrissi un breve tweet nel quale indicavo il modello cinese di controllo capillare della società come un "laboratorio" a cui molti, anche in occidente, guardano senza alcun dubbio come esempio per sperimentare tecniche di sorveglianza di massa che - se idonee e funzionanti in Cina - potranno essere insinuate ed implementate anche nelle nostre società democratiche e liberali.



Avevo individuato i presupposti per convincerci a cedere "spontaneamente" la nostra libertà in cambio della promessa di maggior sicurezza - che allora immaginavo sarebbero stati usati in un futuro prossimo - nel terrorismo islamico e nella resurrezione del terrorismo interno.
Su quest'ultimo punto, tra il 2016 e il 2017 quando scrissi il mio "Uropia il protocollo Maynards" il terrorismo interno sembrava un miraggio del lontano passato a cui nessuno dava più peso, come fosse una stagione relegata ormai agli anni Settanta e Ottanta.
Le implicazioni dei rapporti oscuri tra forze di polizia e servizi segreti tedeschi con formazioni neonaziste "libere" di esercitare omicidi mirati contro stranieri e immigrati (con il NSU - Nazionalsozialistische Untergrund nella memoria) sono una parte non secondaria del mio romanzo e della storia del fittizio movimento politico Uropia.
Solo due anni dopo, purtroppo, l'omicidio del politico tedesco Walter Lübcke in Germania ha aperto una stagione di attentati con motivazioni politiche prima con l'episodio di Halle, la sparatoria di Wächterbach e da ultimo l'ecatombe di Hanau.
Un triste e deprimente quod erat demonstrandum, che però evidentemente era estremamente facile da prevedere - e quindi forse anche da prevenire - se persino un esordiente scrittore di thrillers italiano ci era potuto arrivare.

Non avevo scritto nel mio romanzo, invece, che anche le pandemie virali - accidentali o intenzionali - avrebbero potuto avere lo stesso scopo.
Ma, non appena il Coronavirus19 si è diffuso nella provincia di Wuhan, il governo cinese ha reagito con metodi che molti pensavano potessero essere applicati solo in una dittatura, non da noi.
Vi sottopongo due articoli interessanti, specialmente se contrapposti uno all'altro.
Nel primo - scritto quando in Italia i decessi non avevano ancora occupato le prime pagine dei giornali - si paventa la funzione repressiva della "controllocrazia" cinese conseguente alla pandemia come se quella fosse un problema limitato alla Cina e impossibile nel nostro paese.
Il secondo - evidentemente successivo alle misure draconiane implementate dal governo italiano nelle zone del contagio - estende le preoccupazioni alla dimensione che - forse - esse dovrebbero realmente avere, e che riguardano tutti noi e il futuro della nostra libertà, della nostra democrazia.

Ed anche il futuro del nostro continente.  Perché non è difficile immaginare che nei prossimi mesi il tema della lotta alle pandemie potrebbe essere utilizzato - ergo: verrà utilizzato - per dare l'ultimo colpo alle sovranità nazionali e per indurci a cederle ad un sovrastato europeo unificato che, già nella forma embrionale di oggi, è un'entità intrasparente, incline al lobbyismo e alla corruzione e con palesi deficit di democrazia.

La “controllocrazia” cinese spinta al massimo per battere il coronavirus: e poi?
Wuhan è un “formicaio” di undici milioni di abitanti. Una città ora posta, letteralmente, sotto sequestro. Lo scenario da incubo in Cina al di là del virus
La voce di New York,  di Valter Vecellio, 14 Feb 2020

L’allarme lo lancia il South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong; per la collocazione geografica, e per Il pubblico a cui si rivolge, è particolarmente sensibile alle problematiche dell’epidemia del coronavirus. Le questioni sanitarie e non solo.
E’ questo “non solo”, su cui conviene riflettere. Prima una constatazione: il regime cinese ha saputo creare una colossale rete di sorveglianza di massa, tra le più efficienti e capillari; un Big Brother capace di monitorare le attività di un buon miliardo e mezzo di persone.
Un controllo che si sviluppa a partire dalle attività più semplici, “normali”: la spesa pagata con carta di credito o una funzione del telefono cellulare; la prenotazione un biglietto di treno; il registrarsi in ospedale per andare in visita a un congiunto o un amico; un semplice scambio di SMS… Il “grande occhio” registra, connette, cataloga, scheda: da quando ci si alza dal letto fino a quando ci si corica, tutto tracciato.
Per quello che riguarda il coronavirus, gli esperti avvertono (non c’è ragione di dubitarne) che si tratta di un virus pericoloso: “Non sappiamo esattamente quanto, ma certamente lo è. Si tratta di un problema che bisogna affrontare con fermezza, con decisione e con la guida dei dati scientifici”.
Niente da obiettare; e niente da eccepire quando ci si dice che al momento ci sono solo due strumenti per combattere il virus e limitarne il contagio: diagnosticare i casi, e isolarli: “Dobbiamo isolare le persone che sono infette o che possono essere infette. Non c’è altra strada”.
C’è tuttavia un aspetto che da considerare; l’hanno battezzato con un termine che fa venire l’orticaria: “controllocrazia”. I problemi vanno al di là della pur grave epidemia: indubbiamente da una parte ci sono gli oltre 1.300 decessi, le decine di migliaia di contagiati, tutti i rischi connessi. Dall’altra ci sono i limiti (e i rischi) dell’emergenza, i controlli, le limitazioni. Un qualcosa già visto (e destinato fatalmente a moltiplicarsi) all’indomani dell’11 settembre e la tragedia delle Twin Towers: gli Stati Uniti e il mondo chiedono sicurezza; in cambio cedono consistenti porzioni di riservatezza, disposti a invasivi controlli e rinunce di personale libertà.
Si prenda la città di Wuhan: un “formicaio” di undici milioni di abitanti. Una città posta, letteralmente, sotto sequestro, e questo è il meno. L’epidemia cade in occasione del Capodanno cinese, festività nel corso delle quali, per tradizione, ci si sposta; almeno cinque milioni di abitanti di quel “formicaio”, si sono mossi.
Le autorità cinesi assicurano che sono state in grado di monitorarle, di “tracciarle”; cinque milioni di persone, individuate attraverso le reti dei cellulari. A Shantou, nella provincia del Guangdong, usati i droni per individuare chi non indossa le mascherine.  In nome dell’emergenza, beninteso; comunque uno scenario da incubo.
Il regime assicura, grazie alla tecnologia di riconoscimento facciale, di poter identificare un cittadino in pochi secondi con una precisione superiore al 99,9 per cento. Sempre il regime garantisce che le città cinesi sono tra le più sicure al mondo, e che le autorità, grazie alla tecnologia hanno risolto la totalità dei casi di omicidio commessi durante e dopo il 2015. Si faccia pure la doverosa tara, essendo appunto un regime che esalta sé stesso. Come sia il problema della “controllocrazia” resta tutto.
Il primo caso di coronavirus appare a Wuhan il 1 dicembre 2019; a metà mese le autorità dispongono di prove sufficienti per sapere che il virus è in grado di colpire gli esseri umani. Per evidenti ragioni di “regime” l’epidemia non viene riconosciuta fino al 20 gennaio, quando ormai la situazione è incontrollabile; e ora quello che si sa (si spera, almeno).
Se questa vicenda insegnerà qualcosa ai satrapi di Pechino sarà quella di ulteriormente rafforzare la “controllocrazia”. Con il “pretesto” dell’emergenza, facendo leva su comprensibili timori e paure, sarà più facile, stringere le maglie, intensificare più di quanto già non siano, controlli e sorveglianza.
Come ben ci ricorda Leonardo Sciascia, da sempre la sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini.





Come disciplinare una società dopo averla «influenzata»

«Le misure eccezionali prese per contrastare il virus non sembrano rispondere ad un’esigenza di salute pubblica, ma piuttosto ad una lezione di pedagogia disciplinare di massa»
Il Manifesto, 28.02.2020 pubblicato il 27.2.2020, 23:59
L’incredibile sproporzione tra il problema che si sta affrontando – la scoperta e la diffusione del Coronavirus – e le misure intraprese – lo stato d’eccezione applicato in alcune regioni e tendenzialmente all’intero Paese- rivela qualcosa di molto profondo sulle dinamiche sociali e di potere che stanno attraversando una società come quella italiana, sfinita da tre decenni di cultura politica neoliberale, che, oltre a peggiorarne pesantemente le condizioni di vita, ne ha polverizzato ogni legame sociale. E, sebbene questa situazione presenti anche paradossi disvelanti – il virus è arrivato via aereo con la cravatta dell’uomo d’affari, non via mare con gli abiti sdruciti del migrante – e qualche volta persino divertenti – a quando il primo barcone di industriali del nordest che cercherà di entrare in Romania e, respinto, verrà soccorso dalla prima ong leghista con Salvini al timone? – ciò su cui occorre porre l’attenzione è rappresentato almeno da due aspetti inquietanti.
IL PRIMO RIGUARDA il potere e le vette di disciplinamento sociale che sta sperimentando. Foucault diceva che le misure a suo tempo prese per contrastare la lebbra e la peste costruivano due forme di potere differenti e complementari con un unico scopo: quello di controllare la società.
E se le misure prese per contrastare la lebbra si basavano sul rigetto, l’esclusione sociale e l’abbandono degli ammalati al loro destino, con l’obiettivo di salvaguardare la società dagli stessi e di perseguire il sogno della «comunità pura», le misure prese per contrastare la peste si basavano sul rigidissimo controllo e sulla ripartizione ossessiva degli individui, che venivano differenziati, incasellati e normati, con l’obiettivo di governare meticolosamente la società e di perseguire il sogno della «comunità disciplinata».
SCRIVEVA FOUCAULT al proposito: «Questo spazio chiuso, tagliato con esattezza, sorvegliato in ogni suo punto, in cui gli individui sono inseriti in un posto fisso, in cui i minimi movimenti sono controllati e tutti gli avvenimenti registrati, in cui un ininterrotto lavoro di scritturazione collega il centro alla periferia, in cui il potere si esercita senza interruzioni, secondo una figura gerarchica continua, in cui ogni individuo è costantemente reperito, esaminato e distribuito fra i vivi, gli ammalati, i morti, tutto ciò costituisce un modello compatto di dispositivo disciplinare».
L’analogia con quanto sta accadendo in questi giorni è impressionante, ma diventa inquietante se lo si paragona con la «minaccia» che incombe: non siamo in presenza della lebbra, né della peste, bensì di un virus del raffreddore, ovviamente da non sottovalutare in quanto nuovo e per il quale nessuno ha di conseguenza sviluppato gli anticorpi, ma che per virulenza e mortalità, ha una pericolosità estremamente limitata.
Sembra evidente come le misure intraprese per contrastarlo non rispondano ad un’esigenza di salute pubblica, ma ad una «lezione di pedagogia disciplinare di massa». Da diversi punti di vista.
IL PRIMO DEI QUALI riguarda i soggetti: mentre è chiaro come la categoria veramente a rischio sia quella degli anziani con patologie pregresse, tutte le misure sono principalmente rivolte ai bambini, ai giovani e agli adulti.
IL SECONDO riguarda gli spazi: nelle zone prive di focolai sono salvaguardati i luoghi della produttività di bambini e adulti, che devono andare in classe e sul luogo di lavoro, ma non possono fare nient’altro, essendo vietati tutti gli spazi della curiosità, dell’incontro, dell’arricchimento culturale e spirituale, della socialità.
Il terzo riguarda i tempi: la chiusura alle 18 dei locali a Milano, a meno di immaginare ascendenze vampiresche del Coronavirus, sembra un plateale invito all’autoisolamento nel panico individuale, dopo aver comunque dato il proprio contributo al Pil della nazione.
L’APOGEO è stato raggiunto dalla Regione Marche che, pur in assenza di qualsiasi focolaio, nonché di qualsiasi persona ammalata, ha chiuso tutte le scuole e proibito tutte le attività di incontro, fino a farsi impugnare il provvedimento dal governo, che ora dovrà spiegare al solerte governatore come, affinché la pedagogia disciplinare funzioni, serve almeno una parvenza di shock (che so, un malato), altrimenti il re viene visto nudo da tutti.
Questo ci porta al secondo aspetto inquietante di tutta questa vicenda. E riguarda la società e la sua passività. Com’è infatti possibile che tutto questo avvenga senza alcun sussulto sociale, che non siano le battute ironiche che viaggiano via social? Come mai, da un lato all’altro della penisola, si fa incetta di amuchina indipendentemente dal rischio reale? Perché abbiamo accettato di trasformare le maschere di carnevale, allegre, variopinte e reciprocamente comunicanti, con mascherine tristi e monocolore con le quali transitiamo su autobus e metropolitane, comunicando tensione ed ostilità?
C’È QUALCOSA di molto profondo che sta emergendo in questi giorni, al punto da aver quasi ammutolito – salvo l’agitazione sfrenata sotto contagio da potere – personaggi come Matteo Salvini di fronte allo stupore di un sogno, per quanto a sua insaputa, realizzato: un popolo che vive di paura e che si fa disciplinare. Addirittura grato al potere di aver finalmente identificato un nemico reale e di aver dato un nome ad un’angoscia da insicurezza che era divenuta insopportabile.
Non si tratta di proporre eccentriche violazioni ai divieti imposti o velleitarie chiamate all’esodo da questa situazione paradossale: si tratta di iniziare a interrogarci tutte e tutti assieme se e per quanto tempo continueremo a consegnare le nostre esistenze e la loro dignità a chi, una volta utilizzando la trappola del debito per respingere ogni rivendicazione di diritti e l’altra utilizzando un’epidemia per disciplinare l’intera società, ci chiede di interiorizzare la solitudine competitiva come unico orizzonte esistenziale.

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